La critica cinematografica, vizi e virtù
È BELLO CIÒ CHE È BELLO?
A che cosa serve la critica cinematografica? A scegliere un film o a comprenderlo meglio? Gli spettatori sceglierebbero la prima risposta, mentre i critici preferiscono la seconda. Ma c’è proprio bisogno dei critici per apprezzare o detestare un film? Evidentemente no. Esiste il gusto personale, e tutti possiamo avere un’opinione su quello che vediamo. E vale la stessa cosa per i libri, i quadri, le canzoni, il teatro; eppure molto spesso abbiamo bisogno degli esperti per valutare la nostra esperienza estetica.
Non è un caso che la cultura cinematografica abbia cominciato ad essere legittimata proprio quando la critica ha prodotto un “discorso sui film”, ovvero ha mostrato la necessità di ragionare sulle opere e non solamente di accontentarsi di semplificazioni come “bello/brutto”, “mi è piaciuto/mi ha annoiato”, “super/fa schifo”, e così via – espressioni iper-semplificate ed elementari che purtroppo sembrano oggi essere particolarmente in voga sui social media. Ma da oltre un secolo esistono le recensioni ed esistono i critici che le scrivono, preparati sulla Settima Arte e attrezzati (nel migliore dei casi) per analizzare e giudicare i film.
COME ESSERE UN BUON CRITICO
Già, che cosa serve per essere buoni critici? Innanzitutto è necessario trovarsi dei maestri. Per fortuna la storia della critica ci ha fornito straordinari esempi di firme brillanti e chiare, di cui sono conservate raccolte, libri, antologie. Per la critica internazionale, impossibile non cominciare da François Truffaut (I film della mia vita) capace di scatenare la passione cinefila con il suo amore per il cinema e la sua competenza sterminata (non priva di una vis polemica che, senza eccedere, fa bene alla critica). E bene proseguire con Alberto Farassino, uno dei migliori “scrittori” di recensioni di sempre (Lo sguardo strabico). Per poi dotarsi a casa propria del Dizionario dei film di Paolo Mereghetti, ormai un classico enciclopedico per precisione, sintesi e onestà di giudizio. Infine, perché no, riscoprire in biblioteca i grandi maestri come Tullio Kezich, Ugo Casiraghi, Adelio Ferrero.
Una volta trovati i maestri e deciso chi seguire dei critici di oggi (Gianni Canova o Marzia Gandolfi, per esempio), il giovane aspirante deve anche fare apprendistato: conoscere la storia del cinema e il linguaggio audiovisivo (all’Università o con corsi appositi). Nessuno si fiderebbe di uno storico dell’arte contemporanea che non conosce il Rinascimento. Nessuno dovrebbe poter parlare di Tarantino senza aver visto i film di Godard o Leone.
A questo segue l’allenamento della scrittura. L’erudizione non basta se poi si scrive male. E scrivere di cinema è ancora più complicato perché bisogna descrivere a parole ciò che in realtà è narrato con le immagini, quindi con un doppio sforzo di “traduzione”, così da evocare il film e restituirlo agli occhi dello spettatore in tutte le sue sfumature (e in quelle che non sono visibili di primo acchito).
DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI CRITICA
Ma, alla fine, che cosa chiediamo a questo futuro critico? La cosa paradossalmente meno importante è proprio il giudizio. Per carità, al critico si chiede di emettere una sentenza, possibilmente con motivazioni articolate e metodi espliciti, prove e controprove, arringhe ben scritte. Più di questo, tuttavia, interessa l’interpretazione, la capacità di farci riflettere e farci vedere il film con altri occhi. Il miglior complimento che si può fare a un critico non è: “Avevi ragione”, bensì “Grazie, non ci avevo pensato, mi hai fatto riflettere”.
Ecco perché la critica non può essere svilita a giudizio di valore, sia pure mediato dalla competenza. Ed ecco perché spesso i critici sono contestati a partire dal metro esclusivo del “voto” finale. Le scorciatoie giornalistiche delle palline, stellette, pollice su o giù, ecc. – che servono a sintetizzare per i pigri ciò che pensa di quel film il recensore – non rendono mai giustizia alla complessità dei ragionamenti, alle sfumature, alle distinzioni. I film sono costrutti complessi che necessitano di contestualizzazione, di dibattito, di pensiero, di pazienza, di attenzione. Al critico è richiesto tutto questo, non di urlare due righe su Facebook o di partecipare a una gara di insulti su Twitter, come purtroppo accade.
Diceva lo stesso Truffaut che tutti hanno due mestieri: il proprio e quello di critico cinematografico. E lo diceva più di sessant’anni fa, quando i sedicenti esperti si esprimevano al bar e non avevano Internet a disposizione. Figuriamoci oggi. Inutile, però, lamentarsi della situazione: meglio rimboccarsi le maniche ed essere critici affidabili, trasparenti e capaci. Chi ha fretta, guardi il voto. Chi ha tempo, si goda la riflessione e si confronti con i tanti possibili significati che quasi tutti i film ci offrono.