La corsa trionfale di Kamala Harris verso la Casa Bianca
Finalmente, in questo 2020 stanco e martoriato, è arrivata una buona notizia. I social sono andati in fibrillazione. Coriandoli virtuali sono apparsi ovunque insieme a emoji festose.
Le elezioni USA si sono concluse: i voti sono stati scrutinati e Joe Biden ne è uscito vincitore. Non solo lui. Tanto si è parlato (quasi di più) della vice-presidente Kamala Harris. Co-protagonista della notizia a tutti gli effetti, Harris è stata eletta a simbolo del trionfo femminile in un Paese che si sta emancipando, più lentamente di quanto uno si aspetterebbe, dal pregiudizio: Harris è la prima donna, e la prima donna di colore, a ottenere la carica di vicepresidente degli Stati Uniti. La notizia è rimbalzata da una testata all’altra, da un account Instagram all’altro: non si percepiva un entusiasmo tale da tempo.
Non sono mancate le polemiche. Non solo quelle di chi non ha accolto la notizia in modo favorevole, ma anche e soprattutto quelle dei sostenitori di Harris. Il problema, è stato fatto notare, stava nel modo in cui veniva riportata la notizia: spesso i titoli dei giornali si riferivano a Harris chiamandola semplicemente Kamala (“come la vicina di casa”) o, ancora peggio, solamente una donna, senza neanche il beneficio di un nome e cognome. Un atteggiamento considerato paternalistico e vergognoso. Perché mai nessuno si azzardava a riferirsi al neo presidente chiamandolo Joe, e invece proliferavano i titoli in cui si parlava semplicemente di “Kamala”? E poi perché davanti al cognome di Harris, come davanti a quello di tutte le donne in Italia, compariva sempre l’articolo femminile? Biden è Biden, Harris diventa la Harris, come se ci fosse bisogno di specificare che è donna. Semplici automatismi della nostra lingua? Chissà. C’è chi sostiene che siano pericolosi e irrispettosi. In fondo la lingua è una cosa viva, si può cambiare. Basta volerlo.
Harris è al centro dell’attenzione pubblica quasi più di Biden. Sappiamo che si è candidata in prima persona per la presidenza, a gennaio del 2019, salvo poi ritirarsi a fine anno per assicurare il proprio sostegno a Biden, che l’ha scelta come vicepresidente lo scorso agosto. Un passo indietro che non è bastato a eclissare la sua luce. Il consenso invece che venire a mancare si è esteso. Lo stesso Barack Obama ha commentato così la nomina da parte di Joe Biden: “Ha trascorso la sua carriera a difendere la Costituzione. È una bella giornata per il nostro paese. Ora vinciamo”.
Kamala Harris, madre indiana scienziata, padre giamaicano professore emerito in Economia a Stanford, sembra abituata ai ruoli di spicco e ai primati. Nata a Oakland, California, ma cresciuta in Canada dopo la separazione dei genitori, è stata educata dalla madre che, da sola, si è occupata di lei e di sua sorella Maya, diventata poi una famosa analista politica. Dopo aver completato gli studi di legge, Harris è stata viceprocuratrice distrettuale della Contea di Alameda dal 1990 al 1998. Nel 2003 è stata eletta procuratrice distrettuale di San Francisco, per venire poi rieletta nel 2007, per altri quattro anni. Nel 2011 è stata eletta procuratrice generale della California: la prima donna e la prima donna di origini asiatiche a ricoprire questo ruolo, che manterrà fino al 2017, grazie a un secondo mandato.
Nel 2016 si è candidata alle elezioni per il Senato e a novembre dello stesso anno è stata la prima donna americana di origini asiatiche a ottenere la carica di senatrice.
È considerata vicina all’ala più progressista del Partito Democratico. Le priorità sulla sua agenda politica sono la riforma sanitaria, la questione climatica, i diritti per la comunità LGBTI+, lo stop alla vendita delle armi e percorsi alternativi per chi entra negli Stati Uniti senza documenti.
Si parla di “tandem presidenziale Biden-Harris”. La figura del vicepresidente non ha mai avuto così tanto rilievo nella storia della politica americana. Una donna eletta vicepresidente fa notizia almeno tanto quanto un cambio di direzione della presidenza in corsa, accaduta raramente nella Storia.
Mentre speriamo in un futuro in cui la presenza delle donne in ruoli di potere sia più normalizzata, non possiamo fare altro che considerarla una piccola grande vittoria. Se qualcosa è accaduto una volta, le probabilità che riaccada sono maggiori, come giustamente ha già fatto notare Harris. La sua prima dichiarazione, infatti, è stata: “Sono la prima donna a essere eletta vicepresidente degli Stati Uniti, ma non sarò l’ultima”.
Non la conosciamo ancora bene, forse, ma l’ammiriamo già.