La casa dell’Essere
Nella introduzione al Don Chisciotte (edizione Rizzoli) Borges si dice convinto che un romanzo o un poema non debba essere valutato per la presa della sua lettura, quanto per la scia che ,una volta riposto nello scaffale, quel libro deposita nella nostra memoria: “l’essenziale è l’indefinita immagine inconfondibile che la lettura lascia nel ricordo. Chiuso il libro, il testo continua a crescere e a ramificarsi nella coscienza del lettore. Quest’altra vita è la vera vita del libro”. E per questo – continua Borges – nella memoria umana stanno “indistruttibili e preziose l’immagine dell’hidalgo (…) e quella dell’Ulisse omerico”.
Un accostamento insolito, questo. Ulisse e Don Chisciotte sono due protagonisti di storie distanti che hanno tratti della personalità opposti, tanto l’uno vuole farsi notare quanto l’altro nascondersi. In fondo, forse, hanno una sola cosa in comune, una stessa scommessa: esserci, stare nel mondo nel modo migliore possibile. Ciascuno ha la sua ricetta per riuscirci. Nell’Odissea tutto ha inizio con una operazione semantica: Odisseo imbroglia il ciclope nascondendosi, anzi scomparendo dietro al nome, oltre che sotto il caprone.
È il tempo in cui le parole e le cose coincidono: ciò che è dicibile deve coincidere con ciò che è visibile. Per questo i figli di Gaia ed Urano, i Ciclopi, accorrenti ai richiami di Polifemo accecato non possono che tornarsene a casa ,pur con qualche perplessità e ironia sulla pretesa del loro parente di punire nessuno. È l’età arcaica e la congruenza, il legame tra linguaggio e mondo è garantito da Parmenide: “non pensare mai che ci sono le cose che non sono! Pensare una cosa è lo stesso che pensare che è”. È un mondo ordinato, dove le cose avvengono senza una cornice spazio-temporale e sono regolate da leggi eterne decretate dal verdetto degli dei. Ma Odisseo (“un borghese”, come lo definì Nietzsche) non è in armonia con questo mondo. È sempre in fuga, simula il rispetto dei riti (il cavallo di legno), sguscia via dal fato (si finge pazzo), infrange i divieti e infine oltrepassa le colonne d’Ercole abbattendo gli ultimi custodi dell’inviolabilità della natura: i miti (T.W.Adorno). Il suo obiettivo è liberarsi della natura primordiale, stabilire il primato dell’intelletto sul magma istintuale, rompere il legame tra le parole e le cose. La storia del linguaggio è la storia della nascita di un sistema di segni (parole immagini)il cui senso non dipende più dal mondo esterno ma dal mondo interno che ogni individuo si costruisce. Ed è, questo, il mondo di Don Chisciotte.
“Vendette molte staia di terreno seminativo per comprare libri di cavalleria (…),la fantasia gli si riempì di tutto quello che leggeva…e in tal maniera gli si fissò nell’immaginazione che tutto quello edifizio di fantastiche invenzioni fosse verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa”. E allora il Cavaliere della Mancia “prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli estranei; inverte tutti i valori e tutte le proporzioni perché crede continuamente di decifrare dei segni: per lui gli orpelli fanno un re” (Le parole e le cose, Foucault).
Così, in un mondo senza dei e senza miti, Ulisse (Joyce) oggi si aggira tra i pub dublinesi che sanno di birra, fish and crock, forse per dimenticare Molly, ma più probabilmente per ritrovare una traccia di senso nella quotidianità. In una realtà ormai labirintica, fatta di segni che non portano da nessuna parte, forse l’unica via per ritrovarsi conduce dritto dritto in quel borgo della Mancia, in quella casa dove ,chiusa a chiave, c’è una camera in cui è custodita parte dei cento libri causa del malanno del cavaliere della Mancia. Dovevano finire al rogo, ma dopo la graziosa disamina che il curato e il barbiere fecero della libreria, se ne salvarono molti, pur con la precauzione, suggerita dal curato, per taluni volumi come nel caso “del famoso Don Belianigi” – di usare del rabarbaro per purgarlo della eccessiva rabbia e togliere via quanto si riferisce al castello della Fama”.