Il sogno imprenditoriale e il cinema del successo
Con Air, la storia di come alcuni creativi inventarono l’idea delle scarpe Nike ispirate a Michael Jordan, si rinverdisce il mito di Hollywood che celebra i brand di successo. Il retroscena è sempre una storia di piccole idee diventate grandi, da uno scantinato a Silicon Valley, da un parchetto a Wall Street. Abbiamo bisogno di credere nelle idee imprenditoriali?
Da una piccola idea, un grande mondo
Si può fare un film sulla nascita di un paio di scarpe? E non stiamo parlando di scarpe di alta moda, o di alto artigianato (tipo Ferragamo, per citare un’eccellenza nazionale spesso intrecciata al mondo del cinema), bensì di calzature sportive. Le Air Jordan crearono non solo un design di successo per un’azienda in cerca di rinnovamento (la Nike), ma anche un desiderio di riconoscibilità, oltre che una rivoluzione che ha portato la sneakers a essere socialmente indossabili (quasi) in qualsiasi occasione.
Il film di e con Ben Affleck, nuovamente affiancato dall’amico e collega di sempre Matt Damon, ripercorre il processo creativo e i passaggi commerciali che hanno portato a una storia di successo, intrecciata alla cultura sportiva e ai rapporti familiari. In una parola: America. O meglio: american dream. Ma è possibile che ancora nel 2023 – in epoca di competizione selvaggia da parte di altri soggetti mondiali, a cominciare dalla Cina (leader della tecnologia) – questo mito del successo funzioni ancora? Proviamo a spiegare perché.
Ottima esecuzione, ancora meglio l’idea
Dobbiamo infatti distinguere tra le pellicole più celebrative e quelle più critiche. Nel secondo caso, dobbiamo annoverare almeno due titoli, molto famosi, dedicati ad altrettanti geni dell’innovazione tecnologica dalla personalità contraddittoria. Uno è The Social Network (2010) di David Fincher, dedicato ai due fondatori di Facebook, o meglio a David Zuckerberg e alla sua scalata imprenditoriale cominciata con un semplice album scolastico in versione digitale: il film non lesina critiche ai tratti caratteriali più ispidi e ai conflitti più aspri con il co-fondatore, lasciando allo spettatore il compito di decidere se far prevalere l’antipatia umana o l’ammirazione per l’invenzione. Lo stesso si può dire di Steve Jobs (2015) di Danny Boyle, descrizione del creatore di Apple e del suo animo visionario, ma profondamente solitario, legato al lavoro al punto di trascurare gli affetti, prima di una malattia precoce che ne ha minato il futuro.
Dall’altra parte, un film come The Founder (2016): narrando la vera storia di come nacque l’impero McDonald’s, svela il primissimo ideatore dell’idea di catena del fast food, Ron Kroc (interpretato da Michael Keaton), e la probabile inconsapevolezza di aver inventato una vera rivoluzione commerciale, destinata a cambiare tutto ben oltre il marchio di riferimento. In questi casi, è l’anonimato del genio a scaldare il cuore dello spettatore. Ecco quindi formidabili racconti come quello della ragazza che inventò il mocio (Joy, 2016) o il documentario pluripremiato su Earl Silas Tupper, ambizioso inventore di provincia, e Brownie Wise, la “semplice segretaria” autodidatta, che negli anni ’50 fondò un impero economico su un barattolo di plastica poi chiamato Tupperware (il film si intitola proprio Tupperware!, 2006).
Uno specchio del cinema
L’elenco potrebbe proseguire, pensando agli inventori “immateriali” come quelli dei codici e delle stringhe informatiche, o coloro che hanno rinvenuto sistemi statistici per calcolare le probabilità nelle partite di baseball (L’arte di vincere) o proseguire per comparti, dove spicca quello automobilistico: Tucker (1988), concentrato sull’ingegnere che ideò la macchina Torpedo nel secondo dopoguerra americano, l’imminente Ferrari dedicato al Drake di Maranello, o al contrario Le Mans ’66 sul progettista Carroll Shelby, ingaggiato da Henry Ford II e Lee Iacocca con il compito di costruire una vettura, la Ford GT40, in grado di vincere la 24 Ore di Le Mans proprio contro l’avversaria (il Cavallino rampante).
E se scorriamo all’indietro la storia del cinema, possiamo arrivare a uno dei film più amati di tutti i tempi, e da sempre in cima alle classifiche dei critici, Quarto potere (1940) di Orson Welles, falsa biografia di un miliardario mai esistito (ma molto somigliante a William Randolph Hearst), di cui si immagina prima il successo imprenditoriale – da editore e costruttore – e poi il lancio in politica… Ricorda nessuno? Lungimiranza.
La verità è che i film sulle idee e sulla storia dei brand non rispondono solamente alla curiosità del pubblico o al fascino del business quando è capace di cambiare le nostre abitudini, ma riecheggiano anche il lavoro del cinema stesso. In fondo, questa industria culturale vive di enormi scommesse, di finanziatori che devono fare i conti con i mutevoli gusti degli spettatori, di creativi (registi e sceneggiatori) cui è chiesto di innovare trovando sempre concept originali, storie importanti e format replicabili, in un mercato che contiene sia l’aspetto artistico sia quello commerciale. Non è quindi sorprendente che film e brand si guardino e si specchino l’uno nell’altro.