Il ritorno di Frankenstein Junior: perché la parodia ci serve a sorridere delle nostre paure
Il film cult di Mel Brooks torna in sala dopo quasi mezzo secolo. Perché ci fa ancora ridere così tanto? Piccolo viaggio nel mondo della parodia.
Molte persone ammettono senza difficoltà che non hanno mai riso così tanto come di fronte a Frankenstein Junior. Si tratta di un film che ha ormai mezzo secolo sulle spalle, in bianco e nero, con attori che purtroppo anche il sistema cinematografico ha ormai dimenticato (a torto, vista la grandezza per esempio di Marty Feldman e Gene Wilder), eppure continua a godere di una stima e di una reputazione imperiture. Merito dell’autore, il geniale Mel Brooks – che a ben 95 sta ora per tornare in TV con una serie comica! – capace di rivisitare un mito della letteratura con una versione irresistibilmente umoristica: come dimenticare la gobba mobile di Igor? O i doppi sensi di Inga?
Sono in tanti a conoscere a memoria le battute, anche se pochi sanno che in questo caso gran parte del successo è dovuto a un minuzioso lavoro di traduzione e reinvenzione del doppiaggio. Per esempio, il famoso tormentone “lupo ulu-là, castello ulu-lì” fu un’invenzione geniale dei doppiatori, che riuscirono a sostituire un intraducibile gioco di parole dell’originale, che ruotava sul nonsense «Where wolves?», e il fraintendimento del dottore, che capisce «Werewolves?» ovvero licantropi.
Una presa in giro piena d’intelligenza
Mel Brooks, autore di formidabili farse (da Mezzogiorno e mezzo di fuoco, girato quasi contemporaneamente a Frankenstein Junior fino a Dracula morto e contento), va considerato un grande cinefilo. Quando realizzò Alta tensione, per esempio, incontrò molte volte Alfred Hitchcock, di cui il film era una parodia. Il maestro del brivido, invece che arrabbiarsi e impedirgli di realizzare la sua satira, lo aiutò con molti consigli e infine fu entusiasta di come Brooks era riuscito a ridere dei punti-chiave della sua poetica.
Sì, perché Brooks ha sempre amato il cinema serio, anzi come produttore ha scoperto talenti completamente opposti alla sua concezione ironica della Settima Arte (produsse per esempio Elephant Man di David Lynch e La mosca di David Cronenberg, decisamente due titoli poco ilari). E amava anche il Frankenstein classico, diretto da James Whale del 1931, ammirandone anche i seguiti, in particolare La moglie di Frankenstein che effettivamente, a dispetto del buffo titolo, era forse migliore dell’originale – e infatti l’esilarante sequenza del cieco, interpretato da Gene Hackman, si ispira proprio a una scena di quel sequel.
In generale, tutto Frankenstein Junior è una presa in giro molto rispettosa del capostipite, stilisticamente impeccabile, girata con un bianco e nero raffinatissimo, realizzata mostrando grande conoscenza della storia del cinema, e tutto sommato anche rispettando il messaggio originale degli anni Trenta (pensato in un’America spaventata dai fascismi europei): il rispetto del diverso, del fragile e del “mostro”, che spesso è solamente una persona differente da noi.
Parodiare e “par-amare”
Mel Brooks non è certo l’unico comico che in fondo ama il suo bersaglio umoristico. Totò, in Italia, faceva lo stesso. Se guardiamo per esempio Totò, Peppino e la dolce vita (1961), ci accorgiamo di quanto Totò ammirasse Fellini, e lo prendesse in giro – insieme al regista Sergio Corbucci – con un pizzico di invidia (e alla fine il film che dovevano girare insieme, rimandato per tanto tempo, non si fece mai). Lo stesso vale per le recenti avventure del grottesco Agente Speciale 117, interpretato da Jean Dujardin, parte di una serie di parodie di 007, dove tutte le caratteristiche più discutibili del Bond d’epoca (machismo, colonialismo, arroganza) vengono smascherate, ma al tempo stesso omaggiate con un lavoro di riscrittura molto sapiente.Ecco perché forse è il caso di riconsiderare oggi Frankenstein Junior come un classico, più che come la scimmiottatura o, peggio, la faceta contraffazione di un capolavoro della letteratura e del grande schermo. I temi della scienza e della hybris, della vita artificiale e della diversità, del desiderio e della riproduzione, sono lì, basta saperli cogliere. Sono le nostre paure, rovesciate in un sorriso. Sganasciandoci, certo, ma senza spegnere il cervello.