Il colore dei sogni: trentaquattro artiste tra ‘500 e ‘600
La pittura delle donne tra ’500 e ‘600
Una bella idea, quella del Comune di Milano, di proporre una mostra sulle donne che tra ‘500 e ’600, in un tempo di grandi cambiamenti, decisero di non restare più nell’ombra e di firmare col loro nome le opere a cui già da tempo lavoravano, ma sotto il nome del padre o di un parente o del capo bottega. È soprattutto un gran lavoro di selezione e raccolta di oltre 150 opere sparse tra musei e collezioni importanti d’Europa e le canoniche sperdute della Sicilia. In occasione della mostra sarebbe opportuno ricordare ai visitatori un vecchio ammonimento: ognuno vede quello che sa. Un monito semplice, che ha però dietro di sé una secolare, anzi millenaria, battaglia culturale i cui ultimi bagliori giungono fino agli anni Trenta del secolo scorso, quando ad Amburgo, nella stessa università, si incontrano ,casualmente, Cassirer (filosofia delle forme simboliche) e Panofsky (la prospettiva come forma simbolica) e scoprono di scrivere più o meno le stesse cose. Cassirer aveva 18 anni di più ed insegnava filosofia, Panofsky invece Storia dell’arte. Temi complessi, parole tedesche ma risultati convincenti che un filosofo francese ha chiarito così: “vedere è quella specie di pensiero che non ha bisogno di pensare per capire l’essenza del bello”.
Dunque, una particolare mostra di 34 artiste vissute tra il ‘500 e ‘600, alcune famose e altre meno, molte figlie o mogli di pittori, altre di sarti o miniaturisti, altre chiuse per vocazione o necessità nei conventi post-tridentini ,dedite ai merletti. È una esposizione di opere d’arte fatte da donne vissute in un periodo di forte cambiamento nella storia politica dell’Europa. In Italia, il Concilio di Trento (1563) chiede un impossibile cambiamento della visione della vita. È un tempo di luci ed ombre. Caravaggio ne è il massimo interprete. Beatrice Cenci, la testimone.
Nel clima fervente di iniziative per illustrare “la Chiesa trionfante”, accade che le botteghe familiari di pittori, miniaturisti, più o meno noti, per rispondere alla domanda o allargare il mercato, incoraggino le mogli e le figlie, che già mostravano abilità nelle arti, a uscire allo scoperto. Così, quelle che erano mogli e figlie o sorelle, diventano Artemisia Gentileschi, Elisabetta Sirani, (…) e firmano le opere che prima non potevano autografare. Tanto è il piacere di questa conquista da indurre molte di loro a divertirsi nel collocare nei posti più insoliti la firma (sulla federa di un cuscino o su una scatola di gioielli). Comunque, questo ingresso delle donne nel recinto molto esclusivo e turbolento dei pittori è bene accolto.
“Dipinge da homo” – scrive l’intenditore e mercante Malvasia dopo aver visto all’opera Elisabetta Sirani. E più tardi, seguendola da vicino, aggiungerà: “più che da homo!”. In realtà sono, quelle della mostra, 34 donne diverse, per rango, capacità, competenza, ma tutte – dalla aristocratica Anguissola, familiare alla corte di Filippo II, alla sconosciuta merlettaia del convento umbro – sono donne tali e quali alla donna che in quegli anni 1660 Guido Cagnacci, artista stravagante di sangue romagnolo, dipinse sotto il titolo di Cleopatra morente, cioè naturaliter belle (anche se morenti).
Molte di esse si affermarono, qualcuna – Artemisia Gentileschi – pagò un prezzo molto caro e pur essendo una delle poche a saper di pittura è più nota per le drammatiche disavventure. E invece Longhi legge la Giuditta e Oloferne con parole che suonano così :”nulla in lei – Artemisia (ndr) – della peinture de femme(…)in quel tripudio di sangue l’unico moto di Giuditta è quello di spostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla. Pensiamo – continua Longhi – ad ogni modo che si tratti di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo dopo Van Dyck”. E aggiunge, a proposito di Artemisia, “l’unica che sapesse di pittura”. Alcune di queste artiste entrarono a far parte di accademie prestigiose come quella di San Luca a Roma e quella del Disegno a Firenze. Elisabetta Sirani a Bologna fonda una scuola di pittura per sole donne. Una personalità prorompente quella della Sirani, che sembra essere quella che meglio rappresenta lo spirito della mostra. Sbalordisce a 13 anni per le sue abilità tecniche, la velocità dell’esecuzione di un ritratto fatto in pubblico. Ancora ragazzetta si accolla la bottega del padre gottoso e la fa crescere negli affari. Apre una Scuola professionale a Bologna, insegna alla Accademia di San Luca a Roma. Dipinge e disegna tutto il repertorio delle madonne, dei bambini, delle Cleopatre vive o morenti, Giuditte, con esiti più o meno simili alle Cleopatre, Giuditte, madonne della Anguissola o della Gentileschi. Poi, però, non si sa come, si imbatte in Porzia, quella di Plutarco. La moglie di Bruto e figlia di Catone. Il dipinto ha come retroscena l’agitazione di Bruto tormentato dal pensiero che dovrà portare a termine la congiura pugnalando Cesare. Tenta di nascondere questa tensione alla moglie, ignara del progetto. Ma una moglie -suggerisce Plutarco – vede il tormento di un marito, e lo sente anche lei ancor più forte perché non ne conosce la ragione, la causa. E allora è lei a parlare rivolgendosi a Bruto: “io figliola di Catone – scrive Plutarco – fui messa in casa tua , o Bruto, non come bagascia perché fossi tua compagna solo di letto o di tavola, ma anche per condividere pensieri e passioni. E poiché so che gli uomini non si confidano con le donne perché le considerano incapaci di tenere i segreti perché sono fragili, io, Porzia, figlia di Catone ti dico che so tenere i segreti e te lo dimostrerò per prova”.
Porzia che si ferisce alla coscia. Questo dipinto del 1664 può forse essere non solo l’opera più immediatamente espressiva della Sirani ma anche quella che tiene i fili che legano le storie di queste 34 donne della mostra. Qualche piccolo grumo di sangue offende la bellezza seducente della coscia. Nessun fiotto come nelle Giuditte; eppure qualche brivido scorre nel guardare la mano ancora alzata con l’attrezzo con cui si è ferita. La scena è più cronaca che storia. Non è un interno di famiglia da coniugi Arnolfini. Nella stanza accanto, alcune donne sono intente al fuso e alla maglia, non si accorgono di nulla, tutto è normale ,la quiete domestica non è turbata, il dramma è sempre e solo individuale e solitario. Tutto sembra accadere davanti allo spettatore (Caravaggio). La lama è già penetrata nella carne. Nel volto di Porzia nessun dolore ma fermezza, sfida, fierezza. E la sfida sembra essere proprio il sentimento comune alle grandi artiste di questa veramente interessante e bella mostra.