Icones: La mostra della Collezione Pinault a Venezia
La mostra della Collezione Pinault a Punta della Dogana, dal 2 aprile al 26 novembre, esplora il significato del termine icona nell’arte contemporanea.
Icona, iconico: termini ormai abusati sui media, in TV e nella pubblicità. Ma se la società postmoderna nutre il suo immaginario di icone pop – dalle superstar della musica, del cinema e della politica agli oggetti del desiderio dei brand della moda – una mostra vuole fare il punto e riportare la parola al suo significato più autentico, oggi stravolto da pulsioni consumistiche e dalla banalizzazione e saturazione delle immagini in pasto alla velocità dei social. “Icônes”, a Venezia, a Punta della Dogana dal 2 aprile al 26 novembre, lo fa attraverso le opere più belle della collezione di François Pinault, miliardario francese del lusso che di Punta della Dogana, e di Palazzo Grassi, è il proprietario.
Una parola con più accezioni
Curata da Emma Lavigne, direttrice generale della Pinault Collection, e da Bruno Racine che è direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana, l’esposizione, scrivono i curatori, «invita alla riflessione sul tema dell’icona e sullo statuto dell’immagine nella contemporaneità». Uno sguardo sullo stato dell’arte di oggi e dei decenni recenti – le oltre ottanta opere esposte sono tutte posteriori al 1950, con alcuni inediti creati ad hoc – che però riporta alla sacralità originaria a cui il termine è legato. Sono due, infatti, le accezioni della parola “icona”: l’etimologia greca rimanda ai concetti di “immagine” e “somiglianza”, ma il suo utilizzo tradizionale si riferisce alla pittura religiosa. E proprio il sacro e il trascendente sono uno dei fili rossi dell’esposizione che gioca anche con il significato di icona più comune oggi, ossia quello di “figura emblematica”, in un cortocircuito di senso.
La provocazione di Maurizio Cattelan
Se il discorso può sembrare complicato, basta un esempio a chiarirlo in modo lampante. Tra le opere esposte, la più nota al grande pubblico è senza dubbio La Nona Ora (1999) di Maurizio Cattelan. Chi non ha presente l’immagine di papa Giovanni Paolo II caduto sotto il peso di un meteorite? Qui la vertigine di senso è plurima e potente. Abbiamo un’icona della Storia recente, papa Wojtyla, al centro di un’opera d’arte diventata iconica, creata da un artista altrettanto iconico. E il nucleo dell’opera, come nelle icone tradizionali, è la religione: un discorso sul sacro provocatorio, certo, ma che riporta comunque al trascendente e al suo posto nel mondo di oggi.
Simboli macchiati da guerra e schiavitù
Di stimoli simili, magari meno incendiari, nel percorso se ne incontrano parecchi: letture della contemporaneità, dei suoi miti e dei suoi scheletri nell’armadio allo specchio dell’eterno. Danh Vo, artista di origine vietnamita, figlio di boat people emigrati in Danimarca, in Untitled (2021) si confronta con l’ideale cristiano attraverso un dipinto della Madonna con il Bambino che intravediamo tra gli squarci di una bandiera americana, simbolo iconico per eccellenza, segnata dalla guerra, sporca e crivellata di colpi. Un’altra bandiera, ma di capelli neri al vento, è issata sulla riva di un’isola della Martinica dove nel 1830 naufragò una nave con a bordo un centinaio di africani destinati alla tratta degli schiavi: è Ombre indigene (2014) della belga Edith Dekyndt, immagine pensata come omaggio ai martiri della schiavitù e delle migrazioni che è diventata virale l’anno scorso con tutt’altro senso, assurta a simbolo della ribellione delle donne in Iran.
I tagli di Fontana che aprono al trascendente
Il percorso sui due piani di Punta della Dogana, splendidamente riqualificati dall’archistar giapponese Tadao Ando, si muove tra figurazione e astrazione e invoca tutte le sfaccettature dell’immagine nel contesto artistico: pittura, video, suono, installazione, performance. L’apertura è, ovviamente, emblematica: la prima opera che si incontra è Concetto spaziale (1958) di Lucio Fontana, «un’opera – scrivono i curatori – che, come l’icona, trascende la materialità dell’immagine aprendosi letteralmente, a colpi di strumenti taglienti, verso una dimensione altra». L’afflato verso il trascendente ritorna in molti degli artisti in mostra, in modo astratto in Agnes Martin, Robert Ryman, Roman Opalka, Josef Albers, con citazioni della religiosità popolare nel canto gospel afroamericano che risuona nei video di Theaster Gates e Camille Norment e nell’altare di luce che riproduce il villaggio immaginario di Un village sans frontieres (2000) di Chen Zhen.
Le icone nel cinema russo
Ma l’icona orientale di stampo bizantino si fa anche cinema, nei capolavori di due grandi registi russi di cui si vedono gli estratti in mostra: Ivan il Terribile di Sergej Eisenstein e Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij. Storia, quest’ultima, di un pittore di icone russo del Quattrocento che di fronte alle miserie del mondo e ai soprusi del potere decise di non dipingere più. Un monito al silenzio e alla riflessione anche oggi, nella nostra epoca satura di immagini.