I musei italiani? Non amano la tecnologia
Tra i recenti trend che riguardano il mondo culturale, acquisisce sempre più rilevanza l’insieme di opinioni, ricerche e indagini che analizzano i rapporti tra “cultura” e “tecnologia”.
Negli ultimi anni, infatti, a partire dall’annoso ritardo che il nostro sistema culturale ha mostrato nell’adozione degli strumenti web 2.0, è divenuta opinione comune di molti professionisti culturali che il binomio cultura e strumenti tecnologici-digitali necessitasse di essere consolidato.
Al contrario di quanto tuttavia si potrebbe pensare, una delle ricerche sul tema, condotta da Osservatori Digital Innovation nella seconda metà del 2020, restituisce un quadro molto meno omogeneo di quanto si tenda a credere.
La ricerca, finalizzata ad indagare quali tecnologie fossero già state adottate da musei, gallerie e istituti culturali e quali tecnologie tali soggetti intendessero adottare nel futuro, oltre a rilevare percentuali di adesioni prevedibilmente basse, ha anche registrato un meno sospettato “disinteresse” nei confronti degli strumenti tecnologici.
Nel dettaglio, del campione intervistato, il 37% ha dichiarato di non essere interessato alla Realtà Aumentata, il 39% di non essere interessato alla realtà virtuale, il 66% di non essere interessato ai video-games, il 23% di non essere interessato ai QR-Codes o ai Beacon e il 71% di non essere interessato alle chatbot.
Si tratta di dati estremamente interessanti, perché affermano, in buona sostanza, che il ritardo tecnologico mostrato dal nostro sistema culturale non è attribuibile, come è uso fare, ad una generale mancanza di fondi.
Al contrario, l’indagine evidenzia che molti dei ritardi trovano origine, in realtà, nel “disinteresse” che gli operatori mostrano nei riguardi della tecnologia.
Si badi bene: i dati pubblicati non consentono di stabilire le ragioni di questo disinteresse, né tantomeno si ritiene corretto affermare che tale disinteresse debba essere necessariamente condannato. Che un museo possa reputare superfluo e non interessante strutturare una chat-bot per i propri visitatori è una scelta del tutto legittima.
Tuttavia, per quanto legittima, è pur sempre una scelta che, come tale, meriterebbe di essere “motivata”.
L’obiettivo statutario di molti istituti culturali è quello di conservare, promuovere e diffondere la cultura. È da tale obiettivo che derivano una serie di azioni, progetti e servizi che gli istituti culturali erogano ai propri visitatori o ai cosiddetti visitatori potenziali.
Sono a ciò finalizzati servizi come l’erogazione delle visite guidate o dei laboratori didattici; è a ciò finalizzata l’attività di ricerca condotta dall’istituto culturale e la definizione dei criteri allestitivi relativi alla collezione permanente o la selezione delle mostre da ospitare presso la propria sede. Condividono il medesimo obiettivo, infine, anche strumenti prevalentemente “tecnici”: nel caso dei musei ad esempio, il sistema di biglietteria informatico, il call center, e le altre attività il cui scopo è quello di rendere “facilmente acquistabile” il biglietto di ingresso.
Accanto a questi strumenti, ci sono altre tecnologie che l’esplosione dell’innovazione digitale degli ultimi anni ha reso facilmente reperibili: da specifici display, come ologrammi, o ricostruzioni virtuali, fino alla possibilità di rendere fruibili digitalmente le opere esposte in una galleria.
Malgrado siano oggi ancora poco diffusi nel nostro Paese, questi strumenti condividono gli stessi obiettivi dei servizi più “canonici” elencati in precedenza: così come la visita guidata, la ricostruzione virtuale ha l’obiettivo di arricchire di contenuti la fruizione; al pari del “post su Facebook”, la “mostra online” permette alla galleria o al museo di veicolare le opere presso un segmento di pubblico quanto più vasto possibile.
Al di là delle posizioni personali, quindi, è lecito attendersi che la scelta di adottare o meno uno strumento digitale debba essere il riflesso di una precisa strategia o quantomeno di una riflessione.
Il grande vantaggio che gli strumenti digitali presentano è che tendono ad avvicinare le persone: non solo sotto il profilo della distanza fisica, ma anche e soprattutto sotto il profilo della “distanza psicologica” che può esserci, ad esempio, tra un brand e un consumatore, o tra un museo e un visitatore.
Con la differenza che mentre il mondo profit ha ormai da tempo deciso di adottare tutti gli strumenti ad oggi disponibili, il mondo culturale ha mostrato e continua a mostrare una certa riluttanza in questo senso.
Il risultato è che oggi è più facile contattare un brand di lusso (basta aprire una chat sul loro sito internet) che non un museo, sebbene il brand abbia l’obiettivo specifico di creare profitti e il museo abbia l’obiettivo di “creare comunità”.
Una contraddizione in termini, dunque, che guardando al “disinteresse manifestato” dal campione esaminato, è probabilmente da ricercare in posizioni e convinzioni di natura culturale che tuttavia si scontrano con le prospettive legate al futuro prossimo, in cui lo sviluppo delle tecnologie digitali assumerà con ogni probabilità un ruolo sempre più esteso nelle nostre esistenze quotidiane.
Ad esempio, riguardando le risposte del campione intervistato, è lecito immaginare che il disinteresse possa essere, almeno in parte, motivato dall’assenza, nell’organico degli istituti culturali, di competenze e conoscenze necessarie a poter ben interpretare le potenzialità di questi strumenti. La ragione del divario potrebbe altresì essere individuata nella volontà di “tutelare” la rappresentazione culturale e salvaguardarla dalla potenziale “banalizzazione” che potrebbe derivare dall’eccessivo utilizzo degli strumenti digitali. O ancora si potrebbe ipotizzare una sostanziale “non adesione” al modello di relazione “orizzontale” tra museo e visitatore da parte di una buona parte del nostro sistema culturale, segretamente nostalgica dell’elitarismo della cultura.
Qualunque siano le motivazioni, tuttavia, quelli riportati sono dati di cui bisogna necessariamente prendere atto e che meritano, senza ombra di dubbio, una maggiore “spiegazione” da parte del nostro mondo culturale.
Perché il tema del “disinteresse” è un tema che riguarda elementi ben più ampi dell’utilizzo di una chat-bot o dell’installazione di un sistema di realtà virtuale. Riguarda la già minata capacità di inserire, all’interno del nostro sistema culturale, dei processi di innovazione in grado di recepire, “passo dopo passo” le numerose grandi innovazioni che il mondo tecnologico promette di rendere disponibili nei prossimi anni, con il rischio, quindi, di vedere il nostro mondo culturale, ancora una volta, in estremo ritardo rispetto alla società cui pretende di rivolgersi.
Passi, dunque, se questa condizione è il risultato di una precisa strategia. Può essere più o meno condivisibile, non importa, quello che conta è che è una “posizione” che il mondo della cultura intende adottare.
La condizione diviene invece inaccettabile se tale ritardo è invece frutto di “posizioni personali”, poco supportate da riflessioni, poco rappresentative della struttura culturale.