Gli Oscar misurano lo “stato di salute” del cinema?
Puro tappeto rosso per divi e glamour o manifestazione degna di ciò che storicamente rappresenta? Ogni anno la discussione sugli Oscar riparte dagli stessi punti, ma forse è il caso di considerarlo come un “termometro” culturale.
And the winner is…
Quante volte abbiamo ascoltato e imitato questa frase? In alcuni casi seguita da titoli e nomi che sono rimasti nella storia del cinema, altre volte pronunciata poco prima di un’eccellenza italiana (Fellini, Benigni, Sorrentino) che improvvisamente hanno stimolato un orgoglio nazionale vagamente assopito. Nel dibattito sull’importanza culturale degli Oscar, in fondo, c’è tutta l’indecisione rispetto alla doppia natura del cinema stesso: arte e industria. Inseparabili, o quasi. In effetti, gli Oscar premiano di rado i film di maggior successo al botteghino, e al tempo stesso, guardano raramente a opere completamente di nicchia, tanto da scontentare il cinefilo più irriducibile (“ma com’è possibile non aver candidato/premiato” quel film o quell’autore è la frase preferita dal purista). Gli Oscar cercano una via di mezzo, e spesso centrano l’obiettivo di celebrare un tipo di cinema che fonde impegno civile e spettacolarità, con un’idea molto americana dell’intrattenimento intelligente – e in fondo anche la lunga cerimonia di premiazione “ragiona” in questo modo.
Bisogna però ricordare che i votanti non sono una cupola che decide a tavolino le cose, bensì una moltitudine di iscritti all’Academy, colleghi dei premiati, esperti nelle categorie per le quali eleggono il proprio preferito. Certo, spesso emerge nei retroscena un lavoro di lobbying e di promozione, ma la pluralità di soggetti in gioco impedisce facili truffe – il che non impedisce ovviamente grandi errori storici, come non aver premiato registi geniali come Chaplin, Hitchcock, Kubrick.
Qualsiasi cosa, ovunque, tutto in una volta
Un film come Everything, Everywhere, All at Once è lo specchio degli Oscar negli anni Duemila. Due anni dopo l’imprevedibile vittoria di Parasite (un lungometraggio coreano capace di trionfare nella categoria principale, e non nella riserva del Miglior Film Internazionale), il globalismo estetico mostra di nuovo la sua capacità di penetrare in tutti i linguaggi. Due cineasti come Daniel Kwan e Daniel Scheinert (detti “i Daniels”) hanno messo in scena un’allegoria dei nostri tempi stressanti e del nostro consumismo esasperato (consumare tutto, sempre, ovunque) attraverso il guscio di una storia riguardante una cinese trapiantata in America che entra in tanti mondi paralleli. L’opera è stata girata con un budget infinitamente minore rispetto ai supereroi della Marvel, ma con idee decisamente più fresche e innovative. Partito senza troppi clamori, è il classico tipo di film che cresce nel passaparola, diventa cult generazionale e finisce col conquistare tutti.
Ma se guardiamo a che tipo di titoli la Academy ha deciso di candidare nel 2023 – indipendentemente dagli esiti che ciascuno sortisce – si conferma questa vocazione multilaterale e attenta a un mondo che ormai non ha confini (benché gravato da guerre, protezionismi, muri e conflitti): dalla Prima Guerra Mondiale del tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale (vero trionfatore degli Oscar inglesi, i BAFTA) al danese, sardonico Triangle of Sadness (già vincitore della Palma d’oro a Cannes 2022), per non parlare dell’Irlanda tradizionale e folk di Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh – insomma un panorama decisamente variegato, che non teme di includere anche le opere destinate alle piattaforme e non al cinema (si pensi al potere di Netflix e al suo film d’animazione, Pinocchio, realizzato da Guillermo Del Toro, regista messicano).
Gli Oscar parlano del presente
Anche la cerimonia, a ben guardare, è un calderone ribollente. Lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock nel 2022 è solo la punta dell’iceberg di un evento la cui visibilità ingolosisce per ogni tipo di rivendicazione, spesso sacrosanta: dal movimento #MeToo, grazie al quale si è scoperchiato tutto il sessismo di Hollywood dietro le quinte e le paillettes fino a #Oscarsowhite, che ha denunciato l’insopportabile squilibrio tra vincitori bianchi e vincitori afroamericani. E come dimenticare Marlon Brando che nel 1973 decise di non ritirare la celebre statuetta come atto di protesta per il trattamento riservato agli indiani d’America all’interno del mondo del cinema? In quel caso Sacheen Littlefeather, nativa americana allora 26enne mandata in sua vece da Brando per leggere un discorso proprio a difesa dei nativi, fu fischiata dalla platea, per poi ricevere le scuse dell’Academy solo nel 2022. Insomma, a modo loro gli Oscar sono una cosa seria, e ci raccontano un mondo, essendone al tempo stesso documento e superficie riflettente.