3 lezioni di vita dal grande Giotto, pittore e innovatore
Tra le tante cose mirabili di Padova, le piazze, i palazzi, le chiese, l’orto botanico e l’eccellente cucina, la “Cappella degli Scrovegni” occupa un posto particolare. È un edificio unico al mondo, talmente straordinario che – come per “L’ultima cena” di Leonardo a Milano – è indispensabile prenotarne la visita. La fece erigere agli inizi del Trecento un tal Enrico Scrovegni, ricchissimo usuraio padovano desideroso, così narra la leggenda, di acquisire la benevolenza divina mediante la costruzione di un luogo di culto. Come sia, scegliendo Messer Giotto di Bondone per affrescare le pareti della sua cappella Enrico Scrovegni si è assicurato se non la remissione dei peccati, almeno la nostra eterna gratitudine.
Una volta entrati cercate l’immagine della Fede. È una matrona che nella mano destra regge una croce e nella sinistra una pergamena. Vi propongo questa immagine perché è un esempio da manuale: rappresenta alla perfezione cosa ha combinato Giotto, il genio assoluto che diede inizio a un capitolo nuovo della storia dell’arte.
Osservando la figura de “La Fede” è facile comprendere quanto assomigli alle opere degli scultori gotici. Ma non siamo di fronte ad una statua, stiamo osservando una pittura “a fresco” nella quale il genio di Giotto dà spessore e profondità allo spazio creando l’impressione di osservare una statua a tutto tondo. Le braccia viste di scorcio, la modellatura del volto e del collo, le pieghe del drappeggio e le ombre accentuate: tutto concorre a trasformare miracolosamente la superficie piatta in uno spazio tridimensionale.
Giotto aveva riscoperto l’arte di creare su una superficie piatta l’illusione della profondità. Come il bacio del Principe risveglia la Bella addormentata, così l’arte di Giotto supera finalmente la separazione tra scultura e pittura; lo fa recuperando le scoperte dei pittori ellenistici rimaste celate nelle rigide figure dell’arte bizantina lungo tutto l’interminabile inverno medievale. Un capitolo nuovo, un nuovo inizio nella storia delle arti figurative.
Cosa combina a questo punto Giotto? Potrebbe usare questa sua scoperta come un espediente fine a se stesso, una sorta di trucco per ottenere facile fama e con essa ricche commesse, ma non era questo ciò che lo interessava: aveva compreso di poter mutare la concezione tradizionale della pittura. Una rivoluzione (un’evoluzione?) nel modo di raccontare la storia sacra che offriva l’illusione di assistere agli eventi narrati dalle sacre scritture come se si svolgessero sotto i nostri occhi. Giotto faceva dunque proprio l’invito dei frati predicatori che esortavano il popolo dei fedeli a rappresentare nella propria mente le vicende della Bibbia, i miracoli dei santi, la vita di Gesù e la sua crocifissione come questi eventi potevano essere realmente accaduti. Le storie della fede raccontate attraverso una sbalorditiva successione d’immagini, una “graphic novel” diremmo oggi, il modo più emozionante e più efficace di comunicare con i fedeli in massima parte analfabeti. E’ questo il pensiero che – immaginiamo ossessivamente – non deve aver dato pace a Giotto: come si sarebbe comportato un uomo “vivo e reale” se avesse partecipato a tali eventi, e come si sarebbero presentati agli occhi degli astanti quei gesti e quei movimenti?
Se paragoniamo i “racconti visivi” di Giotto a quelli dei suoi immediati predecessori, di fatto suoi contemporanei, la differenza balza all’occhio in modo manifesto. Se osserviamo una qualunque miniatura religiosa, prima di Giotto non c’è nessuna attenzione per lo spazio né per il luogo dell’azione, tutto è compresso e schiacciato, e l’indifferenza per il luogo in cui si svolge la scena è totale. La concezione artistica di quel periodo era ancorata all’ideale bizantino secondo il quale nel racconto di una storia rappresentava le figure interamente, quasi come nell’arte egizia. Nelle immagini dipinte da Giotto queste regole sono sparite del tutto: le figure abbandonano ogni postura convenzionale e il loro movimento appassionato svela le loro emozioni e il loro dolore persino quando sono rannicchiati e i loro volti nascosti. Non era mai accaduto prima di allora, così come mai era accaduto che la fama di un artista uscisse dai confini della sua città sino a raggiungere i più lontani paesi. Certo, anche prima di Giotto c’erano stati maestri che avevano avuto stima e considerazione; ma questo era un fenomeno circoscritto ai monasteri o alle raccomandazioni di un vescovo, al punto che di norma non si considerava necessario tramandarne i nomi alla posterità. I musei delle nostre città d’arte, in particolare i musei diocesani, sono ricolmi di opere straordinarie prive di attribuzione: ceramisti, orafi, scultori lignei, miniaturisti condannati all’anonimato perché considerati nulla più di un bravo artigiano. Neppure a loro, agli artefici di capolavori che possiamo ammirare nelle chiese medievali del periodo gotico, interessava acquistare fama e notorietà al punto che non firmavano neppure le loro opere. Tutto ciò termina grazie a Giotto, il fiorentino. Con lui, prima in Italia e poi nel resto d’Europa, la storia dell’arte diventa la storia dei grandi artisti.
Come Dante nel linguaggio della poesia, Giotto rinnova radicalmente quello della lingua pittorica italiana come lo stesso Dante e i suoi contemporanei gli riconobbero immediatamente. Una nuova lingua narrativa che portava in primo piano le emozioni e i sentimenti: la prima lacrima dipinta sul volto di un uomo la dobbiamo a lui, ennesima invenzione nell’arte di raccontare le passioni dell’animo umano.
Una rivoluzione, dunque? L’esperienza di Giotto ci insegna che nella storia del pensiero umano – artistico, filosofico, scientifico – non esistono “inizi” assolutamente nuovi, e neppure “nuovi” capitoli. Le grandi scoperte e le grandi invenzioni poggiano inevitabilmente anche sul lavoro e sulle scoperte dei maestri precedenti. Se il rivoluzionario Giotto abbatte il muro del conservatorismo bizantino che fissa le figure in un’eterna immobilità, lo deve dunque anche alla lezione degli scultori delle cattedrali gotiche, artisti sconosciuti di cui non sapremo mai il nome.
Firenze, Padova, Assisi, Città del Vaticano, Parigi, Londra, Berlino e New York. Sono queste le città che ospitano i lavori dell’ineffabile Messer Giotto; per nostra fortuna basterà percorrere l’asse Padova-Firenze-Assisi per ammirare compiutamente il suo genio.
Credo sia inutile suggerire come guardare Giotto. Basta predisporsi all’ascolto (no, non è un bisticcio di parole) e il racconto delle sue storie si svilupperà nel modo più fluido e naturale, proprio come accadeva settecento anni fa. Sono storie che parlano la lingua comune dell’umanità: il dolore di Maria, l’angoscia di Giovanni, l’amico prediletto, l’incantesimo dei gesti di frate Francesco, la meraviglia della natura, la vita delle persone umili ritratte nella fatica dei gesti quotidiani.
Chiedersi quale lezione trarre da un artista morto nel 1337 può apparire anacronistico. Eppure non è così: i grandi artisti sono tali per la capacità di travalicare le epoche storiche, le idee e le convenzioni del loro tempo. Il messaggio dell’opera d’arte è in tal senso eterno e universale. Ma dall’uomo – dalla “persona” Giotto – cosa possiamo apprendere?
- Lo studio.
Giotto si forma nel laboratorio di Cimabue, un grande artista noto ai contemporanei al punto di meritare una citazione dantesca, il quale svolge un ruolo molto importante nella sua formazione. Nel corso di tutta la sua vita Giotto non smette mai di osservare, confrontare, riflettere. La conoscenza approfondita della pittura bizantina e della scultura gotica rappresenta la base della sua “rivoluzione”.
- Il coraggio, la consapevolezza
Giotto rompe gli schemi. Inventa in nuovo modo di rappresentare la realtà e di raccontare la vita reale. Un cambiamento che richiede coraggio e determinazione perché va totalmente controcorrente. Coraggio sostenuto da una forte consapevolezza dei propri mezzi e dalla giustezza della nuova concezione artistica
- La poesia
Il mondo di Giotto è ispirato da una poesia profonda e delicata insieme che attraversa tutta la sua opera. E’ la magia che dona respiro e autenticità alle sue figure rendendole vive e reali anche agli occhi dell’uomo moderno. La poesia della fede e della fiducia nell’umanità .