Édouard Louis e Thomas Ostermeier: quando l’autobiografia è denuncia politica
Se l’arte è un atto politico, nei romanzi di Édouard Louis lo è all’ennesima potenza. A ventinove anni, lo scrittore figlio della classe operaia di una delle zone più depresse di Francia intinge la penna nelle zone più buie e dolorose della sua autobiografia per smascherare classismo, oppressione delle classi povere, razzismo e omofobia ancora radicati nella società e nella politica d’Oltralpe. Lo ha fatto in quattro romanzi di successo, e da qualche tempo lo fa anche a teatro dove la sua denuncia ha trovato un alleato eccellente in uno dei massimi registi europei: Thomas Ostermeier.
Il connubio tra il giovane scrittore impegnato e il regista tedesco ha dato finora vita a due spettacoli di estrema forza, entrambi osannati da pubblico e critica. Il primo è History of Violence, prodotto nel 2018 dalla Schaubühne di Berlino e in arrivo ora in Italia, dall’8 al 10 luglio al Festival di Spoleto. Poi è stata la volta di Chi ha ucciso mio padre, monologo interpretato dallo stesso scrittore in un gioco di specchi impressionante tra realtà e finzione, visto di recente a Milano per la Milanesiana. Ma per entrare nel merito di trame e temi dei due spettacoli, facciamo un passo indietro per scoprire il lavoro, e la vita, di Édouard Louis.
«Per me l’autobiografia è un’arma politica», afferma il giovane scrittore. E lo è fin da quando, nel 2014, il suo primo libro viene pubblicato e in Francia diventa subito un caso editoriale. Lui non ha nemmeno 22 anni, ma nelle pagine di En finir avec Eddy Bellegueule, ossia “farla finita con Eddy Bellegueule” (in Italia il libro ha un titolo un pochino diverso, Il caso Eddy Bellegueule) ha il coraggio di descrivere fin nei particolari più piccoli e dolorosi la sua infanzia di ragazzino omosessuale con un padre machista e omofobo, una madre sottomessa, dei compagni di scuola che lo emarginano e lo chiamano “frocio”, in una cittadina operaia del Nord della Francia dove le sole prospettiva sono spezzarsi la schiena in fabbrica o vivere di sussidi di disoccupazione, e sbronzarsi ogni sera al bar. Lui, invece, punta sulla cultura, vince una borsa di studio per il liceo e lascia per sempre quel posto, e la sua famiglia. Senza rimpianti, anzi: andrà perfino all’anagrafe a cambiare quel nome odiato perché oggetto di derisione, Eddy Bellegueule, scegliendo di chiamarsi Édouard Louis.
Quello che scrive è tutto vero, ed è dirompente. Non si salva nessuno, né le classi privilegiate che portano avanti lo sfruttamento come secoli fa, né quelle operaie dove pregiudizio e violenza sono legge. E lui lo sa bene: «L’autobiografia è disturbante, produce un confronto. È molto più difficile sfuggire a un testo che si sa che è autobiografico, perché mentre lo leggi sul divano sai che quella vita è accaduta realmente, non puoi aggrapparti a un salvagente dicendo “ma sì, è solo un personaggio”. L’autobiografia è politica perché urta le persone, le mette a disagio».
L’arma affilata dell’autobiografia torna nel 2016 nel secondo romanzo, Histoire de la violence, che Ostermeier porta a teatro col titolo di History of Violence. Anche qui torna l’ambiguità disturbante, quell’impossibilità di distinguere in modo manicheo, e quindi rassicurante, il bene dal male. La trama riporta a un incontro violento vissuto dallo scrittore. Alle 4 del mattino in Place de la République a Parigi, di ritorno da una cena di Natale, il giovane Édouard incontra Reda, un uomo di origine algerina. Iniziano a flirtare, e Édouard accompagna Reda nel suo monolocale dove i due trascorrono insieme la notte. Ma al risveglio Édouard scopre che il suo smartphone è scomparso, reagisce, e Reda estrae una pistola e lo minaccia. La situazione degenera fino allo stupro. La mattina successiva Édouard va alla polizia a sporgere denuncia, ma si rende conto dalle reazioni delle persone vicine a lui, della polizia e dei medici che lo curano che razzismo e omofobia sono ancora presenti in modo forte e sotterraneo in una società che formalmente li rigetta.
La denuncia si fa più platealmente politica nella pièce Chi ha ucciso mio padre, trasposizione in monologo del terzo libro di Louis. Qui lo scrittore fa nomi e cognomi – e nello spettacolo mostra le fotografie – dei politici che, con leggi sempre meno favorevoli al welfare, hanno ridotto suo padre a una larva. Un uomo che, pur di non perdere il sussidio, è costretto a fare lo spazzino nonostante la schiena spezzata per un incidente in fabbrica, in una condanna eterna alla subordinazione: «Le decisioni politiche di governi, presidenti e ministri poco a poco hanno distrutto il corpo di mio padre. Il suo corpo è il riflesso del suo posto nella società, di una vita in fabbrica, di povertà».