Charles Dickens ha reso i personaggi delle persone
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Gli anniversari hanno questo di bello. Ci costringono a porre attenzione a persone, fatti o cose che in qualche misura hanno rilevanza nella nostra vita. Il 9 giugno di centocinquant’anni fa moriva Charles John Huffam Dickens, lo scrittore inglese capostipite di un genere letterario – il romanzo sociale – ma anche e soprattutto uno dei più importanti compagni di viaggio della nostra adolescenza. Beninteso, non tanto perché Dickens appartenga al novero degli “scrittori per ragazzi”, quanto per il fatto che tradizionalmente l’incontro con l’autore di David Copperfield e Oliver Twist avviene nella prima giovinezza, fatto salvo per Il Canto di Natale, gioiello che Disney ha trasformato in cartone amatissimo anche dai più piccoli.
Per comprendere appieno la grandezza di Dickens, in buona sostanza il motivo per cui a distanza di secoli le sue pagine sono vive e palpitanti, affidiamoci all’opinione di un altro grande scrittore di lingua inglese, l’americano Philip Roth: «La gente non legge pensando all’arte: legge pensando alle persone». Ecco il punto: Charles Dickens è uno straordinario inventore di storie al cui centro ci sono personaggi che diventano persone. È questo il segreto della grande letteratura. Dalle storie delle imprese di uomini e dèi, dal racconto di amori sofferti e perduti, sino alla denuncia del sopruso e del pregiudizio, la narrazione trasforma un’emozione individuale in sentimento che riguarda tutti gli esseri umani e l’essenza stessa dell’umanità. Palpitiamo per le vicende di David Copperfield e ci indigniamo per i soprusi che Oliver Twist subisce proprio come se fossimo noi stessi a subirli; leggiamo una prosa potente e innovativa, il primo esempio di “romanzo sociale”, l’inedita rappresentazione anti-romantica della vita reale dei poveri, dei diseredati e dei delinquenti che popolavano la Londra della rivoluzione industriale, la città terribilmente inquinata della metà dell’Ottocento in cui lo sfruttamento del lavoro infantile e la prostituzione minorile erano condizione scontata e largamente condivisa.
Facile oggi affermare che Dickens è il “padre” della potente opera di denuncia sociale compiuta da Zola nei suoi romanzi e del suo coraggioso impegno politico in occasione del caso Dreyfus. Facilissimo accostarlo a Steinbeck, il cantore novecentesco degli sfruttati americani. Dickens è altro. Molto altro e infinitamente di più: è quello che si definisce un classico. Quel genere di cosa (letteratura, pittura, architettura, scultura, musica, paesaggio) che in virtù del miracoloso equilibrio raggiunto tra forma e contenuto annulla le barriere dello spazio e del tempo e ci inchioda alla pagina facendoci diventare noi stessi protagonisti della storia che stiamo leggendo. Ogni grande narratore ha la sua cifra stilistica e il proprio tono di voce. Inimmaginabile, ad esempio, aspettarsi ironia e sorriso da un altro straordinario protagonista dell’Ottocento quale è Fëdor Dostoevskij, narratore della colpa, del pentimento, del dolore nell’intricato svolgersi della psiche umana. Charles Dickens ha invece ricevuto dalla sorte il dono della pluralità dei registri narrativi. Nella sua opera non troveremo solo la condanna morale di una società feroce e spietata, il racconto di turpi vicende di miseria e sfruttamento, ma anche la satira dell’età vittoriana, un mondo di privilegi, ipocrisia e perbenismo ritratto con umorismo sottile nel delizioso Circolo Pickwick, opera prima pubblicata nel 1836 tuttora considerata uno dei capolavori della letteratura britannica. Invidio chi ancora l’abbia letto.
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