Dentro gli schermi della Generazione Z
Cosa fanno davvero i giovani quando guardano i propri telefoni?
C’è un meme, una di quelle immagini ironiche che si possono condividere e riciclare all’infinito, che circola da un po’ di anni: dentro alla carrozza di un treno, catturata da una foto in bianco e nero, una fila interminabile di uomini se ne sta a capo chino, immersa nella lettura del giornale, gli uni ignorando gli altri. Il commento in alto, paradossale quanto fulminante, riporta in inglese “Tutta questa tecnologia ci renderà asociali”. Come a dire: niente di nuovo sotto al sole.
Attraverso questa lettura ironica, la battuta rende immediata e al contempo antistorica l’accusa fatta ai social secondo cui starebbero privando i giovani di una vita attiva e sociale, incatenandoli davanti al bagliore di uno smartphone.
E seppur sia vero che ogni mezzo di comunicazione incontra da sempre anche ostilità e sospetto, è altrettanto vero che il più giovane dei gruppi anagrafici che frequenta la rete – ossia quella Generazione Z composta dai nati fra il 1997 e il 2012 – parrebbe ormai incapace di sopravvivere per più di quattro ore senza internet. O almeno il 60% dei rispondenti a un sondaggio del Center for Generational Kinetics, suggerendo naturalmente l’idea che chi ci seguirà sarà forse diverso da noi.
E dunque, così come il nostro vissuto quotidiano è sempre più dominato da novità tecnologiche che influenzano il nostro modo di relazionarci all’esistente a prescindere dal nostro gruppo generazionale d’appartenenza – pensiamo alle intelligenze artificiali, così come i nuovi fenomeni social – ancor di più per i giovani di questo 2023, ossia chi con internet ci è nato e ci cresce tuttora, la rete già influenza plasticamente ogni aspetto della vita.
Basti pensare, per esempio, all’altro dato secondo cui il 56% degli under 25 affermerebbe di avere amici conosciuti e sentiti solo online. A come si stanno formando i nuovi gusti in fatto di consumi mediali, con l’affermarsi di fenomeni prima totalmente impronosticabili – come il successo di una serie coreana sottotitolata in inglese come Squid Game, o dei video di un’intraprendente ragazza napoletana esperta in pellicole per smartphone come NewMartina.
E a come l’uso delle nuove piattaforme social stia modellando la produzioni dei contenuti in rete. Forse il concetto stesso di intrattenimento.
Per provare a capire come stesse cambiando l’offerta dei contenuti in rete, in questi anni mi sono volontariamente prestato a una ferrea “dieta digitale” composta da svariate ore di TikTok, YouTube, Twitch, Instagram, ogni giorno. Un approccio che ritenevo necessario, per cercare di abbozzare un quadro anche solo sommario di come funzioni la parte della rete abitata dai giovani, partendo dall’analisi di dati meramente quantitativi (i like, le visualizzazioni, i trend, i commenti, le condivisioni) e di fenomeni qualitativi, come il funzionamento dei trend, l’introduzioni di nuovi linguaggi, l’affermarsi di determinate personalità.
Il risultato di questa ricerca è una newsletter (“zio”) attraverso la quale, una volta abbonati, si possono ricevere delle e-mail periodiche in cui analizzo alcuni degli aspetti più interessanti e inaspettati di questo mondo in continua espansione – per esempio: sapevi che l’astronomia è tornata di moda fra i più giovani? E che c’è chi è disposto a guardare, contribuendo anche economicamente, una diretta streaming in cui un ragazzo appena ventenne spende centinaia di euro davanti a delle slot machine online?
Da questo progetto, a febbraio scorso, è nato un libro: si chiama “Sei vecchio” (nottetempo, 2023) e vuole cercare di fotografare il momento social in cui ci troviamo, provando a esplorare se e quanto nuovi cittadini del web, gli appartenenti alla Gen Z, siano effettivamente diversi da chi li ha preceduti.
Cosa fanno i giovani online, quindi? È una domanda che mi sono fatto — e mi viene fatta – spesso. E alla quale è difficile replicare con esattezza: d’altro canto, le persone non sono l’anno in cui nascono, né le tendenze appaiono mai univoche. Eppure dei punti nodali sui quali appoggiarsi e cominciare a dipanare una possibile analisi, esistono.
TikTok, per esempio: il social di proprietà cinese, esploso definitivamente in Italia solo da meno di un paio d’anni, è stato sicuramente rivoluzionario. Da una parte, per il fatto che è cresciuto proprio grazie a un’utenza dall’età anagrafica molto bassa, imponendosi fra i coetanei e plasmandone i meccanismi e i contenuti. Dall’altra, per il suo famigerato algoritmo, che sta in parte riscrivendo le regole dell’essere social al giorno d’oggi.
Prova a iscriverti o a farti un giro sulla piattaforma: noterai subito che la pagina principale sulla quale verrai diretto, i cosiddetti “Per te”, non è (soltanto) l’insieme dei video e delle foto pubblicate dai tuoi amici, ma un rullo infinito di filmati che il social pensa possano interessarti, orientando questa scelta in base al modo in cui lo utilizzi – quanto tempo guardi quella clip, i tuoi commenti, i tuoi “mi piace”.
Questo vuol dire che chiunque, con qualsiasi contenuto, può rischiare di finire nei “Per te” di altri. Creando da zero casi in cui dei semplici video in cui qualcuno che prepara dei panini in una salumeria (come Donato De Caprio) o vende il pesce tra le palazzine di periferia (come Gigiolone “Buongiorno pescheria”) può diventare “virale”, arcinoto, per quasi nessun motivo apparente.
A modo suo, TikTok è stato capace di interpretare questo impulso alla condivisione del proprio vissuto: non solo come piattaforma sulla quale raggiungere i propri pari, ma come opportunità di fare intrattenimento. Qualsiasi siano i mezzi e le capacità a disposizione. Capita quindi che su Twitch, una piattaforma di streaming attraverso la quale si può mandare in diretta qualsiasi cosa si voglia, esistano per esempio delle live in cui qualcuno dorme a favore di telecamera, per accaparrarsi il supporto economico di chi guarda tramite le “donazioni”, e fare – a modo suo – spettacolo.
È il caso per esempio di GSkianto, con cui apro il libro: un ragazzo campano di circa venticinque anni che da qualche tempo si presta a delle titaniche maratone-streaming, arrivando a trasmettere in diretta la propria vita 24 ore su 24 anche per cinquanta giorni di seguito.
A ogni modo: è chiaro che non possiamo considerare questa pulsione verso l’auto-esposizione online come un tratto generazionale – sebbene gli studi che ci parlano di una generazione segnata dalla frustrazione di non riuscire a diventare famosi malgrado i mezzi a disposizione non manchino. Né possiamo sognarci che tutti i giovani consumino gli stessi contenuti, nonostante l’esistenza di dati quantitativi.
È pur vero, però, che sembra quasi che i social stiano passando dall’essere “reti relazionali” a “piattaforme performative”: non un luogo digitale sul quale scambiare messaggi e informazioni coi propri prossimi, ma dove catturare l’attenzione di più occhi possibili. Che è quella cosa che al ristorante, non appena arriva il piatto che stavamo aspettando, ci fa impulsivamente cercare lo smartphone per fare una foto.