Da un Recovery all’altro
Quando, il 5 giugno 1947, da Harward, il sottosegretario George Marshall annuncia il Recovery program per l’Europa, in Italia il Comitato interministeriale per la ricostruzione (CIR) era nelle mani di Luigi Einaudi, allora vicepresidente. La storia dice che il C.I.R era già nato nel giugno 1945 con il governo Parri. E a presiederlo era stato chiamato Meuccio Ruini, meridionalista, della scuola di Nitti, con lo sguardo fisso alle sperequazioni e ingiustizie che il sistema fiscale e le politiche economiche concedevano.
Con Ruini compare, in qualità di consigliere e capo di gabinetto, Federico Caffè. Evidentemente doveva già avere una grande considerazione, perché all’epoca i cabinet office reclutavano le migliori intelligenze. L’esperienza sia di Ruini che di Caffè durò poco, neanche sei mesi: il CIR venne assorbito dai Presidenti del Consiglio. Così, Ruini fece altro e Caffè andò a vedere come la ricostruzione la facevano i laburisti. Quando due anni più tardi (1947) arrivarono i 1.200 milioni di dollari del Recovery program (ERP) né Ruini né Caffè videro un cent. Il Recovery non era cosa da meridionalisti. Le scelte fatte allora dettero, come si disse, un indirizzo di sviluppo più favorevole all’ammodernamento dell’industria.
Di quel periodo breve, però, Caffè deve comunque avere un ricordo forte se anni dopo dirà a un cronista, che “c’è bisogno di uomini che non siano profeti dello sfascio, ma artefici della tempra di Meuccio Ruini”(1982). Ricorda Giorgio Ruffolo che la preoccupazione di Caffè per la disparità sociale non avesse un minimo riflesso nelle strategie di politica economica. Tutte le idee riformiste si risolvevano con la sconfitta alla prova della realtà: le politiche dei redditi colpiscono per primi gli operai; quelle di bilancio favoriscono i benestanti; quelle di risanamento colpiscono i tartassati (Micromega n.1).
Forse da qui nasce quella disposizione al “ripensamento” che Caffè suggerisce come metodo per non restare chiusi nelle gabbie delle formule e delle ideologie. E magari questo lo scriveva su Il Manifesto. E, a quanti gli chiedevano perché scrivesse su quel giornale, rispondeva: “perché non mi possono pagare”.
Umanesimo dello stato sociale, così è stata definita la filosofia di fondo del pensiero di Caffè. E forse dai primi segnali del nascente governo Draghi si possono rintracciare nell’allievo i pochi punti fermi del maestro:
1. “non essere prigioniero di formule”;
2. “coltivare il dubbio”;
3. “disponibilità al ripensamento”;
4. “mettere nella contabilità le sofferenze umane”
Questi brevi precetti, dei quali l’ultimo contiene in nuce non solo il pensiero ma anche l’anima dell’economista, possono in fondo intravedersi anche nell’ex alunno dei gesuiti che si accinge a governare il paese. È in arrivo un nuovo e più grande Recovery, rispetto a quello del ‘47. E, come sempre, l’allievo può fare quello che non è riuscito al maestro, può mettere le mani su quei soldi e decidere secondo competenza, coscienza ,responsabilità: le tre virtù sociali che in Italia hanno fragili radici.