Come una mitica competizione di ciclismo, quella tra Koblet e Coppi, ci insegna ad affrontare il domani
Era il 30 maggio del 1953, si correva la tappa decisiva del Giro d’Italia e la trasmissione radiofonica stava per cominciare. Io e mio padre andavamo a sentire la radiocronaca nel bar vicino casa. Quando entrammo in molti erano già seduti, la radio accesa e sintonizzata sulla radiocronaca della corsa. C’erano le solite due fazioni, i tifosi Coppi, di cui facciamo parte anche mio padre e io, e quelli di Bartali. Il ciclismo in quegli anni era il vero sport nazionale. Quel giorno era in programma una frazione importantissima sulle Dolomiti, quella che da Auronzo di Cadore avrebbe portato la carovana fino a Bolzano. I tifosi di Bartali, ormai fuori dei giochi, erano tutti per Koblet, un campione svizzero fortissimo sia in discesa sia in salita, era lui a vestire la maglia rosa e mancavano solo tre tappe alla fine del Giro. Noi confidavamo che il nostro beniamino potesse farcela. Il Falzarego, il Pordoi e il Sella erano tre passi durissimi anche per lo svizzero: Coppi avrebbe potuto staccarlo, a due tappe dalla fine del giro, indossare definitivamente la maglia rosa.
Con il passare del tempo, anche in quel piccolo bar di Tombolo la tensione si faceva sempre più alta. Io fremevo e guardavo negli occhi mio padre. Volevo che vincesse Coppi. Tuttavia le cose non andarono come avremmo voluto. Superato il Falzarego, Koblet, straordinario in discesa, staccò Coppi e passò ancora in testa sul Pordoi. C’era però il Sella da affrontare: noi non avevamo ancora perduto le speranze. Nella discesa tra le due cime, Koblet scattò ulteriormente e allungò, sulla salita Coppi riuscì a riprenderlo e a passare in testa valicando in sella con quasi due minuti di vantaggio sullo svizzero. Dalla radio riuscimmo ugualmente a cogliere l’ovazione della gente che affollava il valico al momento del passaggio in solitaria di Coppi: l’entusiasmo dei tifosi lassù si riversò anche all’interno di quel piccolo bar di paese. Sembra fatta. Stavamo già festeggiando. Poi, sulla strada verso Bolzano accadde quello che nessuno si sarebbe mai aspettato: Koblet riuscì a rimontare, raggiunse Coppi e arrivò insieme a lui sul traguardo. Coppi vinse la tappa, ma lo svizzero riuscì a mantenere la maglia rosa. I bartaliani esultarono. Avevo le lacrime agli occhi. Ero pronto a far festa, invece era andato tutto storto, e a gioire non eravamo noi ma i nostri rivali. Mio padre mi prese per mano, anche lui era molto rammaricato. Mestamente ci avviamo all’uscita.
La delusione era cocente, fortissima. Camminammo soli per strada, mio padre e io. Ero senza parole, senza energia, privo dell’entusiasmo che mi aveva accompagnato nell’attesa di quella giornata. Papà si fermò all’improvviso. Si voltò verso di me, poi afferrò le mie spalle con entrambe le mani e mi guardò dritto negli occhi. Comprendeva la mia profonda delusione, però mi sorrise, e il suo modo di fare e il suo sguardo mi riscaldarono il cuore e riaccesero la mia anima. Poi mi disse: «Ennio, ricordati che c’è anche domani». C’è anche domani… Quelle parole, quel momento segnarono la mia vita. Furono un inno all’ottimismo, mi indicarono la strada da percorrere, mi insegnarono a guardare avanti con sicurezza e fiducia in qualunque circostanza.
Fu la lezione più importante che mio padre potesse impartirmi. C’è anche domani. E domani, allora era il 31 maggio 1953. Quel giorno Coppi, nella tappa da Bolzano a Bormio, attraverso i 2.758 metri dello Stelvio compì l’ennesima impresa della sua straordinaria carriera: staccò Koblet e volò solo verso il traguardo. Vinse la tappa, guadagnò la maglia rosa e si aggiudicò il giro. E io?
Io compresi che c’è davvero anche domani, a condizione di essere pronti e preparati. Perché finché c’è vita, c’è sempre anche domani.
Tratto da C’è anche domani di Ennio Doris, Sperling & Kupfer 2014