Cinema e sport
Lo sport e il cinema potrebbero apparire mondi distanti, accomunati di tanto in tanto da qualche film di ambito agonistico. Ma c’è molto di più. Tutti hanno nel cuore almeno una pellicola sul football, sul basket, sul baseball, sull’atletica – spesso di produzione statunitense, perché in America c’è un DNA diverso che in Europa: lo sport è già narrazione, epica, storia di vittorie e riscatti, mentre qui da noi il tifo acceca e toglie respiro al mito. E in effetti sono pochi i film sul calcio, e ancora meno quelli riusciti (tra cui Il campione, con Stefano Accorsi, dedicato più che altro al dietro le quinte del mondo apparentemente dorato dei giocatori famosi e immaturi).
Più facile lavorare sul documentario. Figure eccezionali come Diego Armando Maradona sono in grado di nutrire molti prodotti, tra cui spiccano il Maradona del grande regista serbo Emir Kusturica, e Diego Maradona di Asif Kapadia, che con soli materiali di archivio ripercorre l’avventura del fuoriclasse argentino a Napoli. Ma anche il recente Pelé programmato su Netflix non è da meno, così come le operazioni produttive intorno al nostro Francesco Totti (un documentario già uscito e una serie TV in arrivo).
Del resto, proprio le piattaforme di streaming stanno raccontando lo sport attraverso nuovi formati e nuove idee. Il successo planetario di The Last Dance, dedicato a una specifica stagione NBA dei Chicago Bulls e di Michael Jordan, ha un po’ riscritto le regole del rapporto tra sport e audiovisivo, adottando la formula della docu-serie ma dimostrandosi non inferiore a una serie TV di finzione per pathos e suspense.
E qui si apre una questione interessante per le immagini di oggi. Non sono solo il cinema e i suoi eredi (televisione, serialità, streaming) a “rubare” le star sportive per imbastire progetti sempre nuovi e sempre più sintonizzati su spettatori esigenti e interessati alle storie di vita. È anche lo sport che “ruba” al cinema le sue tecniche per migliorare sempre più il racconto dell’evento in diretta.
Basta confrontare le riprese di una partita di calcio di trent’anni fa con una di oggi. Se capita una replica di qualche match famoso, conviene soffermarsi per un paragone. Un tempo bastavano alcune telecamere ben piazzate, una voce autorevole come commentatore (e non due o tre), qualche breve sovrimpressione per ricordare minuto e punteggio, e un ralenti per i soli gol. Adesso i punti di osservazione si sono moltiplicati, i primi piani del giocatore inseriti con sapienza durante l’incontro, le scene al rallentatore lasciano a bocca aperta grazie allo slow motion, telecamere mobili sospese sopra al campo garantiscono angoli di visione inimmaginabili, e si può ben dire che “la partita diventa un film”. Lo stesso discorso vale ovviamente per il tennis, per i motori e così via.
Insomma, tutto è cambiato e il fine è quello di estetizzare nel bene e nel male il gesto, con il risultato di renderlo più appassionante (e con il rischio di enfatizzare troppo anche i comportamenti scorretti). Ma c’è spazio anche per le sperimentazioni. Guardate un piccolo e bellissimo film come John McEnroe – L’impero della perfezione di Julien Faraut e scoprirete come l’indimenticabile e irascibile campione di tennis americano può essere osservato e analizzato scientificamente, quasi fosse l’animale raro di un documentario naturalistico, e celebrato nei suoi gesti inimitabili di puro talento.