Centodieci è Arte: gli Oxidation Paintings di Servane Mary a Palazzo Biandrà
L’artista franco-americana espone a Palazzo Biandrà nove dipinti creati appositamente per questi spazi.
Le spettacolari opere di Servane Mary saranno esposte nelle vetrate della sede di Banca Mediolanum di Palazzo Biandrà fino al 28 aprile.
I dipinti sono collocati uno a fianco all’altro, all’interno delle vetrine espositive del Palazzo che danno sulla strada, come fossero un sipario che si apre in sequenza. A completare l’esposizione e a fare da cornice c’è l’architettura del ‘900 di Palazzo Biandrà.
Abbiamo intervistato l’artista per conoscere la sua storia e per sapere cosa l’ha spinta alla creazione della serie Oxidation Paintings. Servane, partendo dalla sua formazione, ci ha raccontato quali sono stati i suoi riferimenti durante il processo di ideazione e creazione dei dipinti e quali sono gli artisti dello scenario italiano che l’hanno particolarmente colpita.
Chi è Servane Mary: come ti piacerebbe essere presentata?
Sono nata in Francia, vivo a New York e sono un’artista visiva. Mi sono trasferita a New York 13 anni fa dalla Francia, da Parigi. Sono cresciuta in Borgogna, ma ho frequentato la scuola d’arte a Parigi dove ho vissuto per 10/12 anni, per poi trasferirmi a New York. Mi definisco quindi un’artista franco-americana.
Oxidation Paintings: qual è il percorso che ti ha portato alla loro creazione?
Credo che, se vogliamo identificare un’artista, sia necessario prendere in considerazione il suo lavoro nella sua interezza. Alla fine, quando realizziamo una serie, stiamo realizzando un’unica, grande opera. Credo sia stato proprio Andy Warhol a dire che alla fine continuiamo a fare lo stesso quadro o lo stesso lavoro. Quindi, immagino che possiamo identificarci in ogni singola opera che facciamo. Le tele, in questa serie, così come tutte le opere che ho realizzato sono da considerarsi tutte insieme perché si collegano una all’altra e in sequenza dalla prima all’ultima: è un unico pezzo, un’unica grande idea. Una serie di lavori ti porta a un’altra serie che, a sua volta, ti conduce a un nuovo “corpo” di lavori. Nella mia pratica artistica tutto è collegato.
In Oxidation Paintings la scelta di usare un minimo comune denominatore, uno schema, una matrice per poi metterlo in una relazione – apparentemente ossimorica – con i “glitch”, che donano all’opera una vita pittorica a sé stante e proiezione nell’astratto, è un processo artistico molto affascinante e ricco di significato. Puoi raccontarci di più?
Penso che non sia mai una scelta consapevole, dato che non sai mai cosa farai dopo. Quindi c’è solo il passato. E c’è molto istinto. Credo che ci sia tu, la tua persona, i tuoi risultati e il lavoro che hai fatto prima. In un dipinto o, come mi piace definirlo, nel prodotto finale, c’è molto di più di ciò che può riservare la sola “dimensione visiva”. Un quadro è infatti anche la persona che lo guarda, poiché anche l’osservatore è dentro il quadro. Se qualcuno scrive di un quadro, anche questo fa parte del quadro. Se il curatore scrive un testo, anche questo entra nell’opera. Tutto ciò fa parte dell’opera, dello spettatore, del luogo in cui verrà esposta, se si tratta per esempio di una mostra a Milano. Quindi tutto diventa il “pezzo”, tutto è nel pezzo.
Non sono sempre stata una pittrice. Mi sono formata come tale perché quando ho frequentato la scuola d’arte, ho studiato al Dipartimento d’Arte e Spazio, che era il dipartimento di pittura dell’École nationale supérieure des Arts Décoratifs. Quindi ho ricevuto una formazione da pittrice e poi, una volta terminata l’accademia, ho continuato a dipingere fino a quando mi sono trasferita a New York, un paio di mesi dopo. Da quel momento ho iniziato a lavorare e sperimentare con l’immagine stampata e con vari processi di stampa. Era un mio desiderio tornare a dipingere, ma non sapendo come fare, dovevo avere un riferimento.
I primi quadri che ho fatto erano riferimenti alla pittura. E alcuni di loro, come gli Oxidations e altri, sono riferimenti ai dipinti Oxidation di Warhol. Avevo bisogno di un qualche tipo di trampolino di lancio, un legame che mi riportasse alla pittura, in particolare alla pittura astratta.
Nelle mie opere ho mantenuto le dimensioni degli Oxidations di Warhol, quindi 76 x 52 pollici. Così ho iniziato a dipingere. Come l’Ultima Cena erano come un monocromo, come un unico colore. Ho iniziato a integrare il pannello forato tipico degli atelier o dei laboratori nell’immagine; i punti infatti provengono proprio dall’immagine del pannello forato. E poi c’è l’ultimo strato dell’ossidazione ed è come se questo ultimo passaggio fosse la mia matrice.
Quando mi sono trasferita a New York, ho trovato questo materiale molto interessante. Inizialmente volevo lavorare con delle griglie e c’era questo materiale, molto comune negli Stati Uniti. Infatti, in America tutti hanno un pannello forato in casa, sia in garage per appendere gli attrezzi, ma anche in cucina. Mi sono appassionata a questo materiale usandolo sia come strumento, sia replicando la sua stessa immagine.
Come strumento, perché lo uso per l’ossidazione, come una sorta di grande stencil. Faccio gocciolare un po’ di “verde Tiffany”, la soluzione per ossidare la vernice di rame, e uso il pannello forato come stencil per far gocciolare l’ossidazione attraverso la perforazione. In un secondo momento poi impiego la vernice. Si tratta quindi di un’ossidazione naturale, completamente naturale.
L’ultimo strato impiega diversi giorni per ossidarsi, circa tre o quattro. Tra l’altro, nel mio studio nel Bronx, a New York, l’aria è troppo secca per procedere a fare ossidare le mie tele, e per questo motivo vado in un altro studio a Long Island, vicino all’acqua, a completare il processo creativo. Lì realizzo le opere Oxidation, perché l’ossidazione funziona davvero solo grazie al sale e alla vicinanza del mare.
In questa serie di dipinti si possono notare tracce stilistiche dei dipinti a ossidazione, realizzati da Andy Warhol alla fine degli anni ’70 e riecheggi all’Impressionismo, all’Astrazione lirica e alla Process Art, fino all’Action Painting…
Ritengo che la pittura astratta sia la storia di tutta la pittura. Perciò credo che, per me, fosse interessante vedere come Warhol avesse già “sgonfiato” il gesto di tutta la generazione maschile dei pittori espressionisti astratti a New York, negli anni Quaranta e Cinquanta. Infatti, il modo in cui i suoi dipinti Oxidation erano fatti, ovvero fondamentalmente chiedendo ai suoi assistenti di orinare sulla tela per ossidarli, era già una sorta di reazione alla vecchia generazione di espressionisti astratti, o in un certo senso una presa in giro.
Ovviamente sono passate diverse generazioni da allora, ma penso che questa sia una nota interessante. Inoltre, con questa serie di lavori mi distanzio dalle opere Oxidation di Warhol. Innanzitutto, non chiedo alla gente di fare pipì sulle mie tele, e inoltre sono una donna, ho un diverso approccio al processo.
Si tratta di trovare quindi nuovi modi, capire ciò che può essere detto, ciò che può essere fatto, come è stato fatto un dipinto astratto. Chiederci cosa può essere un dipinto astratto oggi per noi, e per me, che sono un’artista donna, che vive a New York…
Nelle tue opere si percepisce un tempo diverso, più riflessivo e con una prospettiva più a distanza… Ti rivedi in queste tracce?
Si, c’è sicuramente una riflessione. Non è un atto casuale. Tutto il mio lavoro prima era basato sull’immagine, lavoravo su donne o ritratti; quindi, anche in quel caso il processo era davvero come lavorare sull’identità, l’identità come pittrice donna. Per riassumere la mia pratica nel tempo, penso che prima si potesse trattare di teoria della pittura e ora si tratta di pratica pittorica.
Nel panorama artistico italiano, c’è qualche artista che ha particolarmente colpito la tua attenzione?
Sì, sono una grande fan di tutti gli artisti dell’arte povera, come Jannis Kounellis, Mario Merz e tutta quella “gang”. Nella galleria di Gavin Brown a New York ho visto il lavoro di Kounellis sui cavalli, quando hanno riproposto all’interno della galleria la storica installazione del 1969. Proprio in quel periodo ho incontrato Kounellis, circa 7,8 anni fa, e sua moglie Michelle. È stato davvero incredibile vedere il suo lavoro a New York 40 anni dopo, e che cosa significasse per lui la scena artistica di New York. Lui è uno di quelli che appartiene alla “vecchia” generazione. È stata una mostra incredibile. Una delle migliori mostre che abbia mai visto a New York.
Qual è il messaggio che vorresti passasse oggi, qui a palazzo Biandrà, attraverso questa esposizione di Oxidation Paintings?
Nei miei dipinti in mostra mi piace pensare che, più che un messaggio, ci sia una sorta di esortazione all’attivazione. In questo caso, stiamo parlando di che cos’è un dipinto. Un dipinto diventa tale, quando lascia lo studio di un artista e poi viene mostrato e così viene “attivato”. Penso che lo spettatore sia parte anche di un’opera d’arte e questa è una bellissima attivazione dei miei nove dipinti. Sono molto felice perché in questo modo hanno una sorta di vita: saranno qui per 12 mesi e questo è molto tempo per entrare a contatto con l’opera d’arte.