Pronti all'incontro, e allo scontro: coltiviamo l'amicizia (anche ai tempi dei social network)
Confesso di avere un’altissima, intrattabile considerazione dei rapporti umani: non credo a nessun sentimento, a nessuna relazione, che abbia un limite. È una visione molto estrema e selettiva, lo so: ma non voglio comunque in alcun modo negare che amori e amicizie possano essere autentici anche se presentano prima o poi un’ineluttabile data di scadenza. Del resto la stragrande maggioranza finisce così e sarebbe ingeneroso appiattirla sul loro non lieto fine.
Però sì, credo ai sentimenti fortemente elettivi. Credo che quel grande sentimento che é l’amicizia debba intrattabilmente prescindere dalla misera logica del dare per avere e fondarsi su un reciproco dare per dare. Credo che non possa giustificarsi con il bisogno di colmare un vuoto e di non stare da soli, ma debba arricchire e valorizzare tanto le nostre debolezze quanto i punti di forza. Credo che non si possa limitare a una piacevole, abitudinaria quotidianità, ma debba darsi prospettive condivise, qualcosa di energetico e nutriente.
È chiaro che la stragrande maggioranza delle amicizie nasce da circostanze favorevoli: vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro, conoscenze comuni, contiguità di gusti e idee. Inevitabile sia così. Solo che dovremmo sempre chiederci se queste amicizie funzionerebbero anche al di là del contesto che le ha innescate: se saremmo amici anche se non frequentassimo gli stessi ambienti, se non dovessimo vederci per lavoro, se non condividessimo gusti musicali o fede calcistica o ideologie politiche o religiose. Perché qualunque relazione umana può essere davvero sostanziosa se consideriamo gli esseri umani molto più importanti delle loro idee, identità, gruppi, schieramenti. In questo senso, per quanto possa apparire paradossale, mi viene da pensare che siano più “pure” -se mi passate la parola- certe amicizie nate e cresciute su Facebook: perché una volta data per scontata la loro natura instabile e volatile nei social, lì i rapporti sono alla fine più liberi, più facilmente disinteressati. Ci sta che facilmente e rapidamente svaniscano, ma se prendono consistenza allora godono dell’opportunità di crescere senza quei condizionamenti e quei compromessi che la frequentazione più o meno obbligatoria comporta inevitabilmente.
Perché abbiamo assoluta necessità -direi anzi il dovere- di combattere la diffidenza, il disincanto, il sospetto, che come una nube tossica incombono sui rapporti umani. Intendiamoci, non credo minimamente alle beate, retoriche sciocchezze sull’amore universale, al “siamo tutti fratelli”, e tantomeno penso -non scherziamo neanche- che la natura umana sia buona in sè. Ma non è arroccandoci dentro muraglie dissuasive che possiamo davvero difenderci da ciò che percepiamo come una minaccia: l’unico risultato che otteniamo con la diffidenza è quello di inaridirci, di soffocare ogni energia condivisiva come se le relazioni umane fossero tutte quante la proverbiale notte dove tutte le vacche sono nere. L’amicizia -come tutti i grandi sentimenti- deve essere innanzitutto la nostra forma di relazione con il mondo: solo che poi dobbiamo -dalle amicizie come da tutti i grandi sentimenti- pretendere molto, dobbiamo per farle crescere essere disposti al confronto e anche allo scontro, perché è dalla valorizzazione delle differenze che nascono i rapporti più intensi e profondi. No, non è facile: si tratta di essere al tempo stesso assolutamente aperti e per nulla disposti a volare basso. Proprio perché è un sentimento nobile e vitale, l’amicizia non possiamo appiattirla su qualcosa di meno nobile e meno vitale.