Storia della Notte e Destino delle Comete. Al Padiglione Italia Tosatti e Viola due “compagni di strada”
Storia della Notte e Destino delle Comete è il progetto di Gian Maria Tosatti, proposto dal curatore Eugenio Viola, che rappresenterà l’Italia alla 59° Biennale di Venezia dal 23 aprile al 27 novembre 2022, commissionato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea.
Il connubio tra Tosatti e Viola è rodato da una consuetudine lavorativa che dura da quasi dieci anni. È stato automatico, quindi, per il curatore assecondare la richiesta di ricevere il progetto di un solo artista espressa per questa edizione dal Ministero della Cultura. Per la prima volta nella storia della Biennale l’Italia sarà rappresentata da una voce unica.
Il Padiglione Italia ospiterà, all’interno delle Tese delle Vergini all’Arsenale, un’esperienza immersiva. Gli spazi saranno fortemente trasformati dall’intervento dell’artista in un percorso visionario e a tratti distopico, frutto di un uso integrale e multifocale dei linguaggi della contemporaneità. Intento del curatore è coinvolgere lo spettatore in un progetto che sia un potente statement sul mondo attuale, in grado di restituire una lettura coraggiosa del presente.
Come ha dichiarato Viola durante la conferenza di presentazione del Padiglione Italia 2022 lo scorso 14 febbraio: “Io e Gian Maria siamo compagni di strada, […] la sua padronanza degli spazi, che gli viene anche dal ‘peccato originale’ del teatro, si collega alle poetiche performative e alla tradizione dell’environment che sono molto vicine alle mie ricerche curatoriali. Sono molti i punti di contatto tra la mia ricerca e la sua pratica artistica, perché entrambi siamo sostenuti da una solida impostazione teorica ed entrambi vediamo i nostri progetti come un continuum. Considero tutti i miei progetti come un romanzo per immagini in costante formazione e quello che andiamo ad aprire tra poco è probabilmente il capitolo più importante della nostra carriera”.
Il percorso condiviso tra Tosatti e Viola nacque intorno all’opera Sette Stagioni dello Spirito, un progetto di residenza a Napoli durato tre anni. Il lavoro prevedeva sette interventi dell’artista in altrettanti edifici monumentali dismessi della città, coinvolgendo anche gli abitanti dei quartieri interessati nella messa in opera degli impianti artistici. L’atto conclusivo di tale esperienza fu una mostra al museo MADRE del 2016 che ne raccontava il percorso ed il contenuto.
In conversazione con Eugenio Viola, abbiamo cercato di focalizzare le pietre miliari di una carriera che attraversa i Sud del mondo ed arriva a portare le problematiche e le complessità della società contemporanea sotto i riflettori più autorevoli del sistema dell’arte. Eugenio Viola attraverso un lavoro curatoriale impegnato, pur definendosi un outsider – non un politico, ma un “artivista” – porta alla ribalta i temi riguardanti quella che lo stesso Tosatti ha definito “la saggezza dei vinti”. I “temporaneamente vinti”, spiega quest’ultimo, rispondono al conflitto sociale con reazioni alternative, non cercando una revanche, ma inventando un’altra strada per migliorare la storia (Artribune 16 dic. 2016).
La tua carriera è costellata di attività professionali di rilievo in paesi che il sistema dell’arte consolidato potrebbe definire marginali, una scelta o un caso?
“Sono nato a Napoli e per questo motivo appartengo a un tessuto che per certi versi si basa su di una lettura complessa della realtà sociale. Questo mi ha da sempre offerto un punto di vista che io reputo privilegiato. Il sistema globalizzato sta cambiando e poterlo vedere da quelli che sono considerati i Sud del mondo è un valore aggiunto. Se guardo indietro il mio percorso, solo ora, riunendo i puntini, posso intravedere una coerenza che più che sulle scelte si è costruita sulla costanza della mia ricerca. L’arte ha il ruolo sociale di dire le cose che altrimenti non potrebbero essere dette e la coerenza della mia ricerca curatoriale, dopo anni di perseveranza, assume un significato lineare che a priori non potevo programmare. Credo che sia sempre importante credere nelle proprie idee e portarle avanti con la convinzione di un serio lavoro sul campo. Qui a Bogotá, per esempio, l’intero problema della pandemia è stato relativizzato dalla realtà sociale di un territorio che è uscito solo di recente da uno dei conflitti interni più lunghi della storia. Portare una visione più ampia e una lettura stratificata della percezione delle realtà credo che, proprio in un momento come questo, sia un dovere etico e morale. Sono specializzato nei linguaggi artistici della performance, del lavoro sul corpo e delle sue degenerazioni, e la coerenza di questi miei interessi, uniti all’accuratezza della mia indagine, mi ha portato oggi a leggerne un percorso lineare che cerca di apportare il suo contributo alla complessità della lettura del mondo contemporaneo”.
Quali le tappe importanti del tuo percorso e che cosa consiglieresti ad un giovane professionista dell’arte che intende intraprendere la carriera di curatore?
“Il mio mentore accademico è stato Angelo Trimarco, con lui ho svolto dopo la laurea il mio dottorato di ricerca, all’Università di Salerno. Da quegli studi è nato un rapporto con Orlan, artista oggetto della mia tesi e del mio primo progetto internazionale nel 2007, al Museo di Saint Etienne col mio secondo mentore: Lorand Hegyi, all’epoca direttore dell’istituzione. Dal 2009 al 2016 ho lavorato come curatore al museo MADRE, prima come Junior e poi come Curator at Large, per poi arrivare al PICA di Perth in Australia (2017-19) e ora mi trovo a Bogotá come Capo Curatore del MAMBO. Nel mio percorso mi sono ritrovato a lavorare con tanti artisti che avevo incontrato nel corso del mio lavoro di ricerca e le collaborazioni continuano con molti di loro ancora oggi. Ritengo che la mia forza sia stata la coerenza, la continuità, credere in un’idea. In sostanza, questo è il mio consiglio: la coerenza, oltre a dover sempre credere nei propri sogni.”