Il Coronavirus ha sconvolto davvero il futuro del capitalismo?
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Il Coronavirus sta modificando profondamente le nostre vite, ma non sappiamo ancora quanto. Siamo troppo immersi nella dinamica che stiamo attraversando e la nostra energia al momento è quasi totalmente presa dalla priorità della salvaguardia della salute. Contemporaneamente non stiamo più gestendo la ridondanza comunicativa sul Coronavirus, siamo bombardati da una serie di notizie e informazioni continue, spesso contraddittorie, spesso sbagliate, altre invece ottime e utili che facciamo fatica però a selezionare dalle altre. In sostanza siamo confusi.
Si è persa la narrazione, le voci che ascoltiamo sono ormai una babele quotidiana. Stiamo come società gestendo l’improbabile e non siamo pronti per questo. Le conseguenze sono senz’altro il disagio personale e la difficoltà a diagnosticare il presente e ancor più il futuro. Abbiamo però memoria del passato e al momento ci aggrappiamo a quello anche per pensare il futuro, ma facciamo fatica ad avere un pensiero innovativo sul futuro. Questa esperienza ci lascia in eredità l’assoluta certezza di competenze nuove e specifiche che dovremo sviluppare nei prossimi anni e di cui l’emergenza vissuta ne ha visto la grande carenza. Come dice Yunus «non torniamo al mondo di prima» abbiamo un’occasione incredibile per costruire un nuovo mondo, il mondo di prima non andava bene anche senza Coronavirus. Competenze ambientali, big data, health organization, capacità di decisione, ascolto attivo, empatia queste ultime sono le cosiddette soft skills che dovremo assolutamente sviluppare nel futuro con molta attenzione se vorremo gestire con efficacia le organizzazioni del futuro. Quando nel 2013 ho scritto Sense of community e innovazione sociale nell’era dell’interconnessione non credevo certo che sette anni dopo ci saremmo trovati nel pieno di un senso comunitario nato con una spontaneità e una destrutturazione che ha lasciato tutti sorpresi. Il filosofo e sociologo sloveno Slavoj Žižek, autore di celebri saggi come L’incontinenza del vuoto, in un’intervista per Repubblica, dice che solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via per rinascere. «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni».
Da qui la necessità di ricostruire quel tessuto connettivo, quella solidarietà, che ci fanno capire che facciamo parte, come ha scritto un grande pensatore quale Edgar Morin, di un’unica “comunità di destino”. Si vede molto bene in queste particolari giornate che stiamo vivendo. La tragedia ci sta spingendo a ricostruire legami perduti. Sono i cittadini a cercare di trovare una risposta spinti dalla necessità, perché nessun disegno politico ha saputo interpretare questo bisogno. Si può dire dunque che la globalizzazione sia giunta al capolinea? Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes, saggista e analista geopolitico, ricorda come sia più una questione di lettura che di certezza e ritiene che la il dopo coronavirus avrà un comune denominatore che è la sicurezza: «Sicurezza economica, pubblica, sanitaria, informatica. E lo sarà sempre di più, ora che si apre una fase di forte pressione sulle catene globali del valore». Dice ancora: «la pandemia è stata un brusco risveglio e ci costringe a ragionare sulla catena del valore e sulla filiera produttiva. Quale valore hanno oggi, e quale fra sei mesi, settori come farmaceutico, biomedicale, telecomunicazioni? Le mascherine e i dispositivi di protezione personale non sono che la punta dell’iceberg, la base è la corsa al vaccino. In mezzo ci sono tanti altri elementi della filiera che da qui in poi saranno sempre più cruciali». Spetta a noi adesso creare un nuovo potere collettivo capace di gestire i futuri che ci attendono e che vogliamo.
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