Andy Warhol, l’alchimista degli anni ‘60
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“La Pop Art è amare le cose. Amare le cose vuol dire essere come una macchina, perché si fa continuamente la stessa cosa. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”: questo dichiara Andy Warhol in un’intervista a G.R Swenson apparsa su Artnews, nel novembre del 1963. Siamo negli anni ’60 e la Pop Art fu una delle forme che accompagnarono il boom economico e il suo più grande esponente fu Andy Warhol, secondo il quale l’arte doveva essere consumata, come un qualsiasi altro prodotto commerciale, dalla società cannibale. Con la mostra “Andy Warhol- Marilyn mito oltre il tempo” organizzata nelle sue sedi presenti nelle tre città italiane di Bologna, Parma e Reggio Emilia, da maggio a giugno, Banca Mediolanum offre uno spunto di approfondimento sull’arte e sul personaggio di Andy Warhol. Una scelta non casuale perché, sebbene Warhol sia da sempre stato un personaggio controverso, a volte non capito e non da subito apprezzato, è l’artista del contemporaneo, quello che si è sempre mosso nel suo presente cercando di interpretarlo nel modo più chiaro ed evidente possibile. Warhol ha riprodotto, raccontato, filmato, fotografato quello che stava accadendo e mai come adesso ci sarebbe più bisogno di una lettura del nostro presente come quella che avrebbe fatto Warhol se fosse vissuto oggi. L’artista incarna perfettamente ancora adesso i valori di libertà, innovazione, impegno e relazione, valori richiesti e necessari per una vita di valore nella nostra società. Al tempo in cui operò Warhol, l’America stava cambiando, seguiva il suo sogno, l’American Dream e stava forse affrontando quelli che furono i cambiamenti più drammatici e forti della sua storia. Furono anni tormentati, anni in cui il contesto americano era alla ricerca di una libertà che non esisteva ancora, ci fu la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, l’uccisione di suo fratello Robert e morì Marilyn Monroe. Martin Luther King chiese l’integrazione razziale per poi venire assassinato nel ’68. Venne ucciso anche Che Guevara, incarcerato Nelson Mandela, morì Winston Churchill. Ci furono gli hippie, Woodstock e la guerra in Vietnam. I Beatles si esibirono sui tetti della Apple Corps e Armstrong insieme a Aldrin camminarono sulla luna. Warhol, che nacque nel ’28 in Pennsylvania, sbarcò a New York nel 1949 diventando l’artista della Grande Mela.
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Tutti conoscono la Factory di Warhol e tante sono le leggende che girano ancora oggi intorno a questo nome, altrettante le superstar che ci misero piede dentro, da Mick Jagger e Lou Reed a Loredana Bertè. Nella sua fabbrica d’argento, chiamata così da coloro che la frequentarono fin dall’inizio, Andy Warhol commentava l’America tradizionale attraverso la propria arte, senza tener conto della ristretta visione sociale del paese. Nudità, uso di droghe, relazioni omosessuali e personaggi transgender compaiono in varie forme in quasi tutti i suoi lavori girati alla Silver Factory. Considerato socialmente inaccettabile, persino spaventoso per l’epoca, i teatri che proiettavano le sue pellicole underground erano a volte oggetto di raid e i dipendenti venivano a volte arrestati per oscenità. Per questo Warhol fu un simbolo di libertà attraverso la sua capacità di reazione, con la sua arte, in risposta a ciò che vedeva accadere intorno a lui. Nessun artista più di Warhol fu in grado di leggere il suo tempo trasformando l’unicità dell’opera d’arte in un oggetto moltiplicabile, ripetibile, a caccia del soggetto da catturare. Maestro in questo, Warhol viene ricordato per il suo gioco serrato con la pubblicità e per aver reso l’opera d’arte oggetto di mercificazione, l’uomo un mero mezzo del capitalismo e aver provocato la massa rendendo la quantità un valore. L’artista ha catalogato sistematicamente i dati della realtà e ha reso modulare l’America. Anche la dolce figura di Marilyn Monroe sorridente, vista nella sua fragilità e bellezza, non era altro, per il pensiero irriverente di Warhol, un’immagine serigrafabile che poteva essere riprodotta e ripetuta in moduli. Il modulo diventò per Warhol l’unità di misura standard che venne assunto a livello antropologico per interpretare il mondo. Modulo e multiplo, l’individuo è solo qualcosa che viene ripetuto per diventare massa e sotto l’occhio dell’obiettivo non è più possibile la sua affermazione. In tutto questo provocatorio e, se vogliamo dire, drammatico (se analizzato in profondità) modo di fissare il mondo, Warhol fu un esempio magistrale di capacità relazionale. Alla sua Factory voleva andare chiunque, tutti volevano stare con lui e potevano farlo, bastava avvicinarsi. Dietro al suo snobismo esteriore Warhol nascondeva una capacità di integrazione e ibridazione: alla factory si potevano incontrare le persone più diverse, persone anticonvenzionali e fuori dagli schemi in un luogo in cui fondamentalmente gli artisti potevano fare networking. Il metodo di Warhol stesso fu rivoluzionario: usare ogni possibile media per parlare del suo presente. Il teatro di Warhol era l’America e interagiva con essa attraverso un mix di modi virtuosi, come il cinema, la musica, la fotografia, il clubbing notturno, rappresentando un ventaglio di attività che lo resero un polo attrattivo per le relazioni. Ma in tutto questo creare, mentre le persone intorno a lui si divertivano, perdevano la testa, ballavano, danzavano e si travestivano, Warhol stava facendo la sua arte, prelevava le sue superstar e le decontestualizzava dal loro ambiente naturale, quello del consumo cristallizzandole nella tela. Warhol, rappresentando l’uomo moderno, stava facendo politica e mostrava il suo impegno nella promozione dei valori che, se erano importanti allora, sono altrettanto importanti adesso: la libertà e la necessità di comunicare al meglio il mondo nuovo. La validità attuale del pensiero di Warhol sta proprio in questo, da grande interprete del suo presente mai come in questo caso la sua arte può essere chiamata contemporanea, e lo scopo di quest’ultima non è altro che quello di renderci più consapevoli. L’arte oggi è sempre più necessaria e importante.
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