Leggere «Il Gattopardo» per non essere spettatori della propria vita
Qualcuno dice che la classe politica è lo specchio del Paese, dei suoi elettori o di chi resta a guardare senza decidere. Inquietante, forse, ma spesso vero. I politici dovrebbero essere l’emanazione, in Parlamento, e poi a cascata nelle Istituzioni, del popolo. È la democrazia. E negli ultimi decenni l’Italia diciamo che non ha brillato per la propria classe politica: corruzione, inettitudine e improvvisazione hanno spianato la strada a un contagio che si è propagato nella società: l’antipolitica. Il celebre ateniese Pericle diceva che solo perché non ti curi di avere un interesse alla politica non significa che la politica non si prenda un interesse su di te. La verità è che non possiamo prescindere dalla politica, è ovunque nelle nostre giornate e nella nostra vita. Quando dobbiamo mediare in ufficio, mentre cerchiamo di usare una strategia in amore, quando ci spendiamo per il bene comune della nostra famiglia. Per questo leggere Il Gattopardo, capolavoro indiscusso di Tomasi di Lampedusa, può aprire la mente verso vette inesplorate della vita. Il protagonista che è anche l’io narrante del romanzo è Don Fabrizio Salina, un nobile principe siciliano. La sua casata ha come emblema, sullo stemma, un gattopardo, fiero e aristocratico felino. La famiglia Salina sta perdendo tutto: i possedimenti, i privilegi, la società feudale della Trinacria si sta sfaldando mentre avanzano i borghesi che si arricchiscono grazie alla loro spregiudicata energia vitale. Ma forse il cambiamento è solo apparente. Come spesso capita in Italia (la Sicilia qui è usata quasi come emblema) questo non accade veramente.
«Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.»
A dirlo è Don Fabrizio e lo comprende anche suo nipote Tancredi che spinto dalla sua impudenza sposa Angelica, la figlia del sindaco, per assicurarsi un futuro glorioso. Ed è proprio di Tancredi l’affermazione ormai famigerata “se vogliamo che rimanga tutto com’è bisogna che tutto cambi”. Nessuna illusione, nessuna fiducia in un futuro che non è in grado di portare un reale progresso. Ciò che è, lo è da sempre e lo sarà per sempre, una specie di eterno presente doloroso e immutabile. Quel che è certo è che non si può ridurre Il Gattopardo al manifesto del trasformismo italico ma nelle parole dei suoi protagonisti si evince quasi come un grido silenzioso il disincanto e l’elegante malinconia meridionale con cui Salina abdica alla vita, si ritira dal mondo arrendendosi all’inevitabile.
Leggere Il Gattopardo ci può insegnare anche quello che non dobbiamo diventare: spettatori della nostra vita. Le scelte modulano i nostri giorni, le decisioni plasmano il nostro futuro. Il libero arbitrio ci permetterà sempre di decidere cosa vogliamo fare, non siamo predestinati ma mattone su mattone siamo noi a costruire il nostro futuro. Poi c’é l’imponderabile e sul mistero degli eventi non abbiamo potere ma agire e scegliere può essere la nostra salvezza. La paura di sbagliare non è semplice da vincere ma deve essere questo l’obiettivo. Ci vuole coraggio per correre dietro ai sogni e da qualche parte dentro di noi dobbiamo trovarlo. Quello che non conosciamo ci spaventa e, nella nostra testa, centuplica la sua portata. Invece che lasciarci travolgere dalla velocità in cui corre il mondo dobbiamo riflettere. Viviamo un’era difficile. L’umanità è come se si fosse inaridita, resta a guardare la corruzione delle anime, la inumanità diventata routine, accetta mostruose sineddoche con una noncuranza disarmante. Chi ha privilegi non vuole perderli e mentre pontifica sulla bassezza del beneficio ne fa un uso sconsiderato sfruttando il momento. Forse bisognerebbe semplicemente andare indietro di 600 anni, calarsi nell’Umanesimo e nel Rinascimento e leggere i classici.
Virgilio nell’Eneide ci aveva dato un insegnamento che non conosce senilità: In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge – diceva il poeta. Ma che razza di uomini è questa? Quale patria permette un costume così barbaro, che ci nega persino l’ospitalità della sabbia; che ci dichiara guerra e ci vieta di posarci sulla vicina terra. Se non nel genere umano e nella fraternità tra le braccia mortali, credete almeno negli Dei, memori del giusto e dell’ingiusto.