Lavorare (e vivere) bene? Questione di organizzazione mentale
Per quanto possa sembrare banale, in una società come la nostra, in cui il caos sembra prevalere in tutti i contesti e gli ambiti, il rischio di perdersi nel rumore di fondo e in un vorticoso susseguirsi di eventi è più che concreto.
Questo nostro mondo va veloce, gira in fretta e non ci lascia mai il tempo di fermarci a riflettere, a studiare la situazione, a comprendere a fondo prima di agire. Dovremmo farlo ogni volta, ma la gran mole di cose che abbiano da fare prende quasi sempre il sopravvento e ci porta dove vuole, impedendoci di disegnare nella nostra mente la mappa di ciò che stiamo facendo. In troppi casi costruiamo cose senza averle progettate; ci dicono che dobbiamo farle e noi ci sbrighiamo a fare, invece che a pensare. Ma cos’è esattamente che facciamo?
Il lato oscuro della civiltà del fare (in fretta)
Il passaggio dalla società rurale e agricola a quella urbana e industrializzata ha cambiato profondamente il senso del fare. Prima della rivoluzione industriale e dell’era delle macchine, infatti, fare significava prevalentemente mettere mano ad un attrezzo e faticare per molte ore al giorno sui campi o nelle botteghe, per produrre ciò che serviva per vivere. Non si trattava quasi mai di attività particolarmente difficili da svolgere, ma per mettere in pratica quel fare ci volevano competenze, progettazione, dedizione e tanto “olio di gomito”. Fare le cose aveva i suoi tempi, le sue stagioni, i suoi ritmi e i suoi rituali, per lo più lenti e scanditi dal moto della terra attorno al sole. Ci si alzava presto, prima dell’alba, si preparava il lavoro e lo si svolgeva fino al tramonto, portando con sé qualcosa da mangiare e da bere durante la giornata, per arrivare a sera. Niente di più che questo. Era un fare ordinato, ripetitivo, faticoso ma rassicurante; chi lo sapeva fare lo faceva senza troppe storie, prendendosi il tempo che ci voleva, giorno dopo giorno, per una vita intera.
Poi è cambiato tutto. L’arrivo delle macchine, dell’elettricità e delle industrie non ha ucciso il lavoro dell’uomo, come qualcuno temeva, ma ha aumentato a dismisura il numero di attività, di professioni e di mansioni. Dalla semplicità che aveva regolato il mondo del lavoro per migliaia di anni, in cui i lavoratori erano per lo più contadini, artigiani o professionisti, nel giro di qualche secolo si è passati a un vero e proprio pantheon di lavori e di specializzazioni, che con il passare degli anni e con le nuove tecnologie si sono moltiplicati a dismisura, in tempi rapidissimi.
Oggi sappiamo che il futuro prossimo ci riserverà cambiamenti ancora più rapidi e radicali. nel giro di pochi anni spariranno centinaia di professioni e ne nasceranno molte di più, prima che il mondo della scuola e della formazione sia riuscito a svolgere il suo compito e prima che gli stati abbiano legiferato in merito, come del resto è già avvenuto con molte delle professioni del digitale e della rete.
Questo ha determinato negli ultimi anni la nascita di numerose mansioni e professioni che non sono scaturite da titoli di studio o da certificazioni professionali, ma che si sono imposte in modo autonomo in funzione del proliferare delle nuove tecnologie e delle esigenze del mercato, che ha reagito a questo cambiamento (trasformazione digitale) come mai era accaduto in passato. Travolte dall’ondata di innovazione, migliaia di aziende e di imprenditori in tutto il mondo si sono messe alla ricerca di referenti in grado di fare qualcosa che assomiglia molto da vicino ad uno sconfortante: “noi non ci capiamo niente, fai tu che ci capisci, ma fallo in fretta, perché gli altri stanno già facendo”.
Ecco dunque che la società del fare, nata sulle solide basi delle competenze, della progettazione e della pianificazione, ha di colpo lasciato spazio a quella del “fare in fretta”, dello “stare sul pezzo” qualsiasi cosa significhi. Ma, ancora, fare in fretta cosa?
L’urgenza di ripartire dalle basi
Basta leggere per qualche minuto i post che la gente pubblica sui social media per capire che, in questa corsa sfrenata, molti hanno perso l’abitudine di mettere in fila le proprie idee e di dargli forma e sostanza, prima di provare ad esprimerle. Lo stesso vale per il lavoro e per tutte le cose della vita. Questa disorganizzazione mentale, che la scuola e il mondo del lavoro non sembrano in grado di risolvere, deriva certamente dal vorticoso caos della società del XXI secolo, ma è anche espressione di una pigrizia che spinge molti (dirigenti e imprenditori compresi) a non praticare più nemmeno le regole basilari del buon senso e della logica. Neanche la vecchia e semplice Regola delle 5W, cara al giornalismo di stampo anglosassone ma con radici che affondano nella filosofia e nella retorica dell’antichità, passando per Cicerone, Boezio e San Tommaso d’Aquino, solo per citarne alcuni.
Una regola tanto semplice quanto efficace, se applicata a monte di qualsiasi ragionamento, perché consente di opporre all’urgenza del fare in fretta la serenità di un ragionamento analitico, schematico:
- chi fa cosa?
- Come lo fa (nelle 5W non c’è, ma il “quomodo” di San Tommaso è fondamentale)?
- Dove?
- Quando?
- Ma soprattutto perché lo fa?
Senza questi pilastri, che ovviamente non bastano a risolvere i problemi della società moderna, a vincere sarà sempre e soltanto il caos, la fretta, la più totale disorganizzazione, mentale e pratica.
Chi sa perché fa per tre
Se si parla di fare e di fare bene, dunque, il fulcro di tutto è il perché; il motivo profondo e portante per cui si fa qualcosa. Quello che in termini giuridici si chiama movente e che oggi fa figo chiamare motivazione, che ci spinge ad impegnarci e a far bene davvero. Senza questo pilastro il fare è soltanto “far melina” e il paradosso è che, al contrario di quanto avviene nel calcio, quella manovra è svolta ad una velocità devastante, tale da creare più pericoli che opportunità. Un correre a fari spenti nella notte che non serve nemmeno a capire quanto sia facile morire, perché i danni collaterali di questo approccio raramente si manifestano nell’immediato, ma si stratificano nel tempo, fino a diventare ostacoli insormontabili.
In un contesto che fa sentire isolati e piccoli di fronte a una montagna di cose, di stimoli, di suggestioni e di rumori, chi mantiene la sua mente organizzata e sa perché è come un supereroe con molti poteri, che vede quello che gli altri non vedono e sente quello che gli altri confondono col rumore.