Artefici del proprio destino? Perché leggere «Il fu Mattia Pascal» di Pirandello
“Per sentirvi più buoni vi serve la gente come me, così potete puntare il vostro dito e dire: ‘Quello è un uomo cattivo!’”. È una tra le battute più famose di Tony Montana, il famigerato profugo cubano, il signore indiscusso della droga di Miami che ha la faccia di Al Pacino in “Scarface”, il celebre film di Brian de Palma.
Nel processo intimo e autoanalitico alla ricerca di un responsabile del nostro impietoso destino, contro chi dovremmo puntare il nostro dito? Per salvarci l’anima e quitare la coscienza, al nostro posto chi faremmo salire sul banco degli imputati? Il capoufficio, la famiglia, la società, Dio?
“Copernico” avrebbe gridato Mattia Pascal, il protagonista senza tempo dell’omonimo romanzo di Luigi Pirandello “Il fu Mattia Pascal”. Avrebbe rivolto il suo dito al sole perché maledetta fu la sua teoria. Per Pascal, era meglio quando la terra non girava o meglio quando girava ma l’uomo non lo sapeva. Dopo la scoperta di Copernico, l’essere umano ha preso coscienza ed è diventato una trottola invisibile. Siamo milioni di granelli di sabbia che girano e girano senza saper perché e senza pervenir mai a destino, avrebbe detto uno tra i personaggi più noti del Realismo pirandelliano. Secondo lui, Copernico ha rovinato l’umanità irrimediabilmente mostrandoci la nostra infinita piccolezza. L’uomo con tutte le sue belle invenzioni è niente davanti all’universo e le calamità naturali sono solo atti di ribellione dell’infinito stellare davanti alla stupidità degli uomini che non sono mai stati tanto noiosi.
Per Mattia Pascal, è Copernico il colpevole che ha tolto all’uomo la possibilità di essere l’artefice del proprio destino. Perché qualcuno si deve pur incolpare se scoprissimo di non essere più i padroni della nostra vita e che la libertà, benché possa sembrare illimitata, è una prigione senza scampo.
Eppure il caso ha dato a Pascal una grande opportunità. Quando amici e famigliari lo riconoscono nel cadavere di un suicida e lo credono morto. È l’occasione di rinascere, di cancellare per sempre il suo passato e abbandonare la condizione di miserabile immobilità in cui era precipitata la sua esistenza. Senza più debiti né moglie né suocera, Mattia muore per tornare finalmente libero. Ricco grazie a una vincita fortuita al gioco decide di andarsene per il mondo e rifarsi una nuova vita. Rinasce con il nome di Adriano Meis senza più nessun legame né obbligo verso gli altri. Senza più il fardello del passato, con tutto l’avvenire d’innanzi, completamente padrone di sé stesso. Meis avrebbe forgiato a piacere il suo destino e con una discreta e sorridente filosofia di vita avrebbe camminato in mezzo all’umanità povera, ridicola e meschina.
E per un po’ fu proprio così. La sua nuova vita fu invasa e sollevata come da una fresca letizia infantile. In quella serena e ineffabile ebrezza, Adriano si smarriva in uno sconfinato stupore: “Lo sentivo entrar nel petto come un respiro lunghissimo e largo che mi solleva tutto lo spirito”.
Ma la levità deliziosa dell’anima, dopo l’aspra e disperata battaglia per la conquista della libertà, diventa presto claustrofobica. Perché Adriano Meis non esiste. Egli è un “forestiero della vita”. Nemmeno l’amore che prova per la dolce Adriana può aiutarlo. Non ha documenti né residenza, per la legge non è mai nato: come può sposarsi?
L’unica soluzione è quella di morire per la seconda volta. Suicidare Adriano e riportare in vita Mattia. Ma la sua nuova identità ora è quella del fu Mattia Pascal un ‘morto-vivo’ che non può riprendere la vita di prima – la moglie si è risposata – e a cui non resta che tornare a fare il lavoro che faceva, il bibliotecario in un paese dove nessuno legge.
Un romanzo straordinario, attuale come tutti i classici della letteratura, una rappresentazione anche umoristica della realtà – casi simili sono davvero esistiti – testimonianza dell’impossibilità per l’uomo di essere totalmente artefice del proprio destino.
Ma se non riusciamo a essere i protagonisti della nostra vita e a fatica raggiungiamo le nostre mete, allora ci resta il viaggio nell’esistenza umana. Restiamo guerrieri impavidi alla conquista della libertà, e nello stesso tempo soldati imperituri che danno battaglia alla solitudine. È forse questo il nostro destino? Perché abbiamo bisogno della libertà quanto degli altri per trovare il nostro posto nel mondo. Codificare la mappa per raggiungere la meta. E la mappa è il nostro nome. Senza esso non possiamo conquistare nulla. Adriano Meis alias Mattia Pascal non ci è riuscito. La sua nuova vita è diventata il suo inferno. La libertà è partecipazione cantava Giorgio Gaber perché essa non è un atto solitario ma una conquista condivisa. E la coscienza è la nostra bussola. Quella coscienza che Mattia Pascal disprezzava, la considerava una ‘piazza’ e quindi, per sua natura, aperta agli altri. Nella coscienza si insinua un legame tra l’individuo che pensa e gli altri a cui l’individuo pensa. Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti degli altri non si riflettono in noi non possiamo essere né paghi né tranquilli né lieti. Tanto è vero che tutti noi lottano perché i nostri sentimenti, i pensieri nostri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri. E se questo non avviene cioè se i germi delle nostre idee non germogliano nella mente degli altri, non potremmo mai essere felici né essere i capitani dei nostri destini.
Per diventare il padrone della propria anima, Mattia Pascal ha vissuto due volte, è stato due uomini ma ha finito per non esserne nessuno. Non gli resta che andare di tanto in tanto a far visita alla sua tomba e alla domanda:
“Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”
rispondere:
“Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal”.