Per uscire dal baratro serve un capitalismo che metta al centro l'umanità, non l'economia
Il nuovo millennio ci ha portato i frutti – ancora acerbi – di una rivoluzione digitale che ha colto molti di sorpresa, imprimendo una fortissima accelerazione tecnologica, culturale, sociale. Una spinta poderosa, che al tempo stesso ha però imposto un brusco stop all’economia globale, che nei decenni precedenti sembrava inarrestabile.
La grande crisi del 2007, innescata alla fine dell’anno precedente dalla crisi dei subprime, morde l’Europa ormai da dieci anni, sintomo chiaro dell’arrivo di una nuova era. Essa ha già collezionato decine di nomi e di definizioni, tra le quali quella di “sharing economy”, che implica un concetto di condivisione che sembra essere alla base di un grande cambiamento, ancora tutto da venire. Difficile comprendere a fondo i meccanismi e le relazioni di causa / effetto che hanno innescato e determinato la grande crisi in cui l’economia oggi vegeta, ma di certo l’utopia del low cost, tra molte altre, sembra essere ormai sfociata in un ben più solido trend, che è quello della condivisione.
Il mostro del consumismo, che ha divorato suolo e risorse, rendendo ogni cosa prodotto di consumo usa e getta, ha reso evidente che occorre puntare su un cavallo diverso, se vogliamo vincere la sfida verso un futuro sostenibile e florido.
Tutto per tutti è impossibile, purtroppo. Non è una questione di costo, ma di sostenibilità. Una civiltà da 7 miliardi di persone non può in alcun modo sostenere il peso di un’economia basata esclusivamente sul consumo, ma deve necessariamente virare verso un’economia e una cultura della condivisione. Così come nessuna economia può crescere all’infinito e senza alcun limite. Ecco perché il capitalismo che tutti conosciamo sta morendo. O meglio, è gravemente ammalato e si trova oggi di fronte a un bivio cruciale: insistere nei vecchi vizi, andando incontro alla morte certa, oppure trasformarsi profondamente, dando vita a un modello nuovo.
Un modello più ambizioso, che faccia uscire gli imprenditori dal tunnel monopolizzante del profitto, che ovviamente non dobbiamo demonizzare in quanto tale, e che gli apra le porte a un ben più ampio ventaglio di opportunità.
Se c’è qualcosa che deve cambiare davvero, nel modello capitalista, è proprio l’ossessione verso quell’unico capitale su cui il modello stesso è stato concepito. Mettere l’economia al centro di tutto e lasciare tutto il resto ad orbitare attorno è stato l’errore più grave che si potesse concepire. È sintomo di miopia, di paura, di scarsa ambizione, perché di capitali ce ne sono molti altri, coltivando ciascuno dei quali si può accrescere in modo esponenziale il valore e le opportunità di profitto di qualsiasi azienda.
Sono capitali anche l’ambiente naturale, la salute, il benessere psicologico delle persone, la sfera spirituale, la società, la cultura. Non si tratta di sfere che possono essere messe a margine del business di un’azienda, succubi della sua tensione ad un profitto che esclude qualsiasi distrazione.
Il benessere della persona è un capitale. Lo è la sua salute, la sua possibilità di esprimere al meglio il proprio talento, di essere valorizzata e di sentirsi davvero parte di un tutto armonico, anziché ingranaggio passivo di un meccanismo capace di svolgere una sola ed unica funzione, fintanto che le cose vanno come devono. Salvo incepparsi o addirittura rompersi al primo imprevisto.
Quello che il nuovo capitalismo deve esprimere, più di ogni altra cosa, è dunque una nuova anima, capace di una visione olistica che sappia finalmente emergere il peccato capitale che il capitalismo sta oggi scontando: la sua mentalità estrattiva.
Una mentalità che ha reso troppi imprenditori dei veri e propri predatori, capaci soltanto di estrarre risorse e di sfruttare le persone, a loro volta intese come mere risorse umane. Risorse che hanno un valore determinato in funzione delle competenze, dei titoli, dell’esperienza, del tempo che sono disposte a cedere all’azienda in funzione di un contratto o di un accordo. Risorse, come il petrolio, come il ferro, come i legnami e tutte le altre materie prime, prese alla terra con la presunzione che essa ci appartenga e che nulla sia dovuto ai diritti delle generazioni future.
Questa mentalità ci ha portato dove siamo ora, nel bene e nel male. Nulla di ciò che siamo sarebbe stato possibile senza qui capitalisti e senza le loro inossidabili certezze. Le rivoluzione dell’era moderna, le sue guerre, le sue incredibili innovazioni, sono state tutte sospinte e alimentate proprio da quei capitalisti e da quella mentalità. L’umanità intera è stata spinta con forza verso quello che oggi ci appare come un baratro, perché qualcuno è andato troppo oltre, mettendo tutti quanti a rischio.
Ecco perché è arrivato inevitabilmente il tempo di cambiare. Ecco perché servono nuove figure di capitalisti, eroici e visionari, che portino la nostra civiltà al livello successivo. Un livello in cui il rispetto delle persone e della biosfera tutta non sarà più un’opportunità per pochi illuminati, ma la regola per tutti. Una regola che non dovrà nemmeno essere scritta, perché è nel DNA di tutti noi, finalmente libero da condizionamenti e di catene.
Un nuovo capitalismo è dunque possibile. Forse non ancora probabile, ma assolutamente possibile, perché l’umanità è pronta per un modello nuovo, che metta al centro di tutto le persone e la loro enorme responsabilità: rispettare la biosfera e i diritti delle generazioni future, oltre a quelli di tutti i popoli.
La nuova mentalità dovrà essere necessariamente generativa e darà vita a un business etico, equo, sostenibile e davvero in grado di far crescere il genere umano e la sua civiltà, oggi minata da insostenibili interessi personalistici, che troppo spesso si fondono con interessi che ben poco hanno a che fare con l’etica e con la cultura della condivisione.