Lavoro in team: ecco 7 dinamiche tipiche del "pensiero di gruppo"
“Molto più della somma delle sue singole parti”, Kurt Lewin – psicologo sociale – ha descritto in questo modo il gruppo, entità costitutiva per eccellenza della vita sociale dell’individuo. Se ci soffermiamo un attimo a pensare, ci rendiamo conto molto facilmente di come la nostra vita sia costellata quotidianamente dall’appartenenza a gruppi differenti, siano essi di natura aziendale, lavorativa, sportiva, sociale, religiosa…
Moltissimi articoli e tendenze organizzative moderne (pensiamo al ruolo della collaboration) puntano sulla forza intrinseca del gruppo e sulla socialità propria dell’essere umano che massimizza la capacità delle persone di lavorare insieme verso un obiettivo comune. I risultati che è possibile ottenere grazie a questi “nuovi” modelli di lavoro non sono in discussione e rappresentano, anzi, uno dei fattori principali delle aziende che hanno saputo emergere dalla crisi degli ultimi anni.
Chi ha studiato psicologia sociale è consapevole, però, di come la realtà dei fenomeni che regolano un gruppo sia molto più complessa e articolata. Uno dei primi a interessarsi delle caratteristiche negative e delle ripercussioni che un gruppo troppo coeso poteva avere è stato Irving Janis che si è domandato quali processi avessero portato alcuni Presidenti degli Stati Uniti a prendere cattive decisioni nonostante avessero a disposizione una buona qualità delle informazioni. Qualche esempio? L’attacco di Pearl Harbour, con avvertimenti di quello che sarebbe successo giunti al comando dell’ammiraglio Kimmel oltre una settimana prima dell’attacco; l’invasione della Baia dei Porci; le disastrose decisioni prese durante la guerra in Vietnam; il lancio dello shuttle Challenger; le simulazioni sull’elezione di Hilary Clinton durante le presidenziali USA del 2016.
Ma che cosa è il groupthink/pensiero di gruppo? Si tratta di un processo decisionale di un gruppo che è fortemente compromesso dalla motivazione dei suoi componenti a raggiungere un consenso indipendentemente da come quel consenso venga ottenuto. Si tratta di un fenomeno che avviene in un gruppo ad alta coesione che vive condizioni di presa di decisione sotto pressione. Le manifestazioni sono abbastanza evidenti:
- Illusione di invulnerabilità da parte del gruppo
- Credenza in una moralità intrinseca, dimenticandosi di principi etici condivisi dalla società
- Razionalizzazione collettiva, dando adito solo a teorie e opinioni che confermano il pensiero iniziale più che metterlo in discussione e isolando i dissidenti
- Stereotipizzazione dei gruppi esterni considerando gli “avversari” meno intelligenti e pericolosi di quello che sono nella realtà dei fatti
- Illusione di unanimità e consenso all’interno all’interno del gruppo
- Pressioni – psicologiche e non solo – sui dissidenti
- Autosorveglianza, evitando quindi l’instaurarsi di opinioni che potrebbero minare l’esistenza stessa del gruppo
Inutile dire che un fenomeno di questo tipo avviene molto spesso anche in azienda e in culture in cui il confronto e il libero scambio di opinioni non è adeguatamente valorizzato o incentivato. Le ripercussioni – come abbiamo visto in alcuni degli esempi citati – possono essere molto gravi.
Ma possiamo “vaccinarci” contro questo fenomeno? Possiamo evitare di cadere vittime di trappole che molto spesso sono sconosciute?
La risposta sta – come spesso accade – nella nostra capacità di essere persone migliori, più consapevoli di quello che avviene. Il pensiero di gruppo, infatti, può essere arginato e controllato invitando esperti esterni al gruppo che non siano soggetti alle sue dinamiche e che aiutino a leggere la situazione in un altro modo; incoraggiando idee alternative e un atteggiamento mentale critico e – infine – nel ridurre al minimo l’intervento del leader. Detto in modo più semplice e citando Albert Camus: “Un impiegatuccio in un ufficio postale è pari a un conquistatore se la consapevolezza è comune ad entrambi”.