Fatti forza. Non esiste fallimento o sconfitta che non possa essere superata
Ci sono partite e sfide più grandi di noi, che non possiamo vincere in nessun modo, per quanto ci sforziamo. Sono batoste, a volte inevitabili, che tutti prendiamo nel corso della vita, ma la ferita che esse lasciano, a volte, è più grave e più profonda della sconfitta stessa.
Non sono niente di più che delle battaglie perse, se ci fermiamo a riflettere con lucidità, a freddo, ma come possiamo evitare che esse si trasformino nella sconfitta definitiva, come accade quando ci lasciamo sopraffare? Lavorare su noi stessi significa imparare a rendere le sconfitte e le cadute un patrimonio, anziché una disfatta epocale.
Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente, ma se non siamo disposti a fare questo lavoro, invece che fuggire a rifugiarci nella bolla ovattata della delusione, con ogni probabilità resteremo a lungo o per sempre agganciati a un passato che ci zavorra a terra, costringendoci a cercare alibi e scuse, anziché soluzioni e progetti per ripartire.
Proviamo a ragionare, dunque. Tutti noi viviamo in un tempo sospeso tra un passato che non potrà tornare e un futuro che non è già scritto o predeterminato e che, nella maggior parte dei casi, non dipende esclusivamente o prevalentemente dalle nostre scelte presenti o passate, per quanto possa esserne influenzato. In qualche misura esse influiscono sul nostro destino, ovviamente, ma in modo molto meno incisivo di quanto non riusciamo a immaginare.
Chi di noi, ad esempio, non conosce un compagno di scuola o un amico d’infanzia che all’epoca ci sembrava spacciato e destinato ad un gramo futuro, per via della sua inconcludenza o per la sua scarsa capacità o propensione allo studio? Quante persone che oggi definiamo “di successo” provengono da famiglie modeste, da storie difficili o addirittura dalla povertà più nera e da problemi all’apparenza insormontabili?
Nessun problema lo è, infatti, tranne quelli che pongono fine alla nostra esistenza fisica e terrena. Ma questo vale davvero per tutte le cose. Non facciamo che lamentarci, ad esempio, di quanto funzioni male la giustizia, ma anche questo ci conferma in modo lampante che c’è speranza di riscatto e di libertà anche per gente che ha preso anni di carcere o addirittura l’ergastolo. Ovviamente quest’ultimo è un bug del sistema, ma davvero non esiste fallimento o sconfitta che non possa essere superata.
A questo proposito può esserci di grande aiuto proprio quel tempo sospeso tra passato e futuro, che possiamo definire “preturo”, se non ci spaventa la cacofonia di un neologismo scovato nel solco della banalità. Il preturo è il solo tempo che ci appartiene davvero, mentre lo viviamo. Per capire cosa sia, pensiamo alla guida di un’auto di notte e al fascio di luce che i fari proiettano verso un futuro a brevissima scadenza, che dura solamente lo spazio di pochi metri. In quel cono di luce c’è la sottile ma consistente differenza tra arrivare a destinazione, metro dopo metro, e schiantarsi al primo ostacolo o alla prima curva.
Non avrebbe alcun senso che i fari della nostra macchina puntassero anche dietro, verso la strada che abbiamo già percorso e allo stesso modo non avrebbe senso che illuminassero molta più strada, davanti, perché è solo restando concentrati su ciò che abbiamo a portata di vista che possiamo guidare in sicurezza fino al nostro traguardo.
Vivere nel preturo significa questo, dunque. Sapere da dove veniamo e come ci siamo arrivati; sapere dove stiamo andando e come pensiamo di arrivarci, salvo imprevisti o ripensamenti. Ma se non ci concentriamo sul cono di luce che abbiamo davanti e spaziamo con la mente e con i sensi troppo indietro o troppo in avanti, a destinazione non ci arriveremo mai e probabilmente ci faremo del male.
È questo che fanno, quelli che non elaborano il lutto della sconfitta e continuano a viverlo, fino a somatizzarlo in una vera e propria malattia. Un morbo che si può e si deve evitare sintonizzando la mente e l’anima sul cono di luce del preturo, evitando:
- rimuginamenti mentali improntati al “se avessi fatto”, “se potessi tornare indietro”, “se avessi dato retta a…”;
- proiezioni catastrofiche verso il futuro, immaginando conseguenze che solo il tempo potrà eventualmente confermare o smentire e che, in ogni caso, non possono essere prevenute o mitigate se non con una lucida analisi e progettualità;
- esagerazioni, esasperazioni, iperboli che ci vorrebbero diversi dagli altri, più sfortunati, più fragili, più esposti;
- autocommiserazione, ricerca ossessiva di consolazione e di coccole che fanno star bene al momento, ma che non spostano di un centimetro il problema.
Soltanto la determinazione a voltare pagina davvero e a concentrarci sul momento che stiamo vivendo, può davvero salvarci e tirarci fuori, dopo una batosta. Tornare a guardare il cono di luce della quotidianità, sebbene con una consapevolezza nuova e con grande responsabilità e attenzione, verso noi stessi e le persone che ci vogliono e a cui vogliamo bene, è la sola medicina che si possa prendere, per ritrovare equilibrio, serenità e forza.
Gettare la spugna non è un’onta irreversibile. La nostra vita, la nostra serenità e il nostro equilibrio, personale e familiare, valgono molto più del nostro orgoglio e della nostra paura. Farlo con dignità è indispensabile, ma non farlo può determinare problemi ben più grandi, rispetto all’elaborazione di un dolore che può insegnarci molto più di quanto possiamo immaginare.