Le BCorp e il business dal volto umano
“Il capitalismo ha prodotto grande benessere e sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà”, scrive Stephen Heintz, presidente dell’associazione filantropica Rockefeller Brothers Fund. “Ma ha anche prodotto profonde e crescenti disuguaglianze all’interno di molte società, erodendo culture locali, tradizioni e condizioni di vita”. Questa contraddizione è sotto gli occhi di tutti e per certi versi il problema ci sembra irrisolvibile e insormontabile, soprattutto per l’azione dei singoli individui. Invece è qui che il paradosso si fa ancora più ampio.
Sono da tempo convinto che il sistema può e debba essere cambiato e che a cambiarlo possa essere ognuno di noi con le proprie azioni. Viviamo in una società capitalista da ormai due secoli e, inutile nasconderlo, difficilmente faremmo a meno dei suoi benefici più immediati: case, riscaldamento, supermercati, accesso all’istruzione e all’informazione, tecnologia, medicina, innovazione e così via. Difficilmente avremmo raggiunto tali livelli di progresso al di fuori di un meccanismo economico come quello attuale. Eppure il problema è che molti milioni di persone ancora non hanno a disposizione tutti questi privilegi e, anche nei paesi più avanzati, aumentano le sacche di disagio a livello sociale ed economico.
La soluzione, appunto, va cercata all’interno della nostra stessa società. Ad esempio guardando a quelle iniziative che cercano di tramutare i meccanismi più rigidi e iniqui della nostra economia piegandoli a maggiore ragionevolezza ed apertura al prossimo. Da tempo osservo con interesse e sostengo il fenomeno delle BCorp: si tratta di quelle aziende che, tramite una specifica certificazione, hanno dimostrato di rispondere a rigorosi criteri di rispetto sociale e ambientale, classificandosi come imprese sostenibili, trasparenti e affidabili. La certificazione BCorp attesta che un’azienda è attenta alle più delicate tematiche di questo nostro mondo, mi piace molto quanto scritto nella visione: “Tutte le aziende competono non solo per essere le migliori AL mondo ma a essere le migliori PER il mondo, per creare una prosperità durevole e condivisa per la società… ”
Attualmente nel mondo ci sono più di 2100 BCorp certificate, provenienti da 50 paesi diversi e in oltre 130 settori di attività, e tutte hanno uno scopo comune: quello di ridefinire il concetto di successo. Come ho cercato di sostenere anche in altre occasioni, infatti, la nostra è un’epoca in cui non ci si può più accontentare dei meri profitti economici per poter parlare di crescita: cresciamo solo se guardiamo al futuro con una progettualità che tiene conto dell’inclusione sociale, del rispetto ambientale e della sostenibilità culturale. Tutti questi fattori vengono presi in considerazione dalla certificazione BCorp e su questi principi dovremmo basare un nuovo concetto di capitalismo.
L’Italia è fortunatamente tra i paesi che più velocemente si stanno attrezzando per adeguarsi a questi nuovi standard: “Sono già 85 le BCorp italiane, siamo il paese in Europa in cui stanno crescendo più rapidamente. E di BCorp si è parlato anche all’ultima assise di Confindustria a Verona”, ha raccontato di recente al Corriere Eric Ezechieli, che con la sua Nativa seleziona e monitora questo tipo di aziende. Un modello che rispecchia molti valori nazionali, come spiega: “C’è un allineamento con alcune caratteristiche degli imprenditori italiani: radicamento al territorio, attenzione alle future generazioni, e poi culturalmente ci pare ovvio che un’azienda debba avere un ruolo positivo sulla società”.
Realtà importanti come Fratelli Carli o Natuzzi si sono già certificate in questo senso. E in Italia è nata anche dal gennaio 2016 una nuova forma giuridica, quella della società benefit, modellata sulla benefit corporation già presente negli Stati Uniti. A metà strada fra le imprese for profit, nate cioè per generare il profitto e distribuirlo fra gli azionisti, e le non profit, c’è un nuovo modello più evoluto che si basa sulla volontà di allineare la missione economica alla creazione di un valore condiviso. Si tratta di trasformare le imprese tradizionali e di adeguarle al mercato e alla società attuali, cambiando in qualche modo anche la mentalità.
Per semplificare, oggi al fare impresa dovrebbe corrispondere, da una parte il profitto e dall’altra il benessere comune, e non è detto che le due cose non si alimentino a vicenda in un circolo virtuoso davvero interessante per gli imprenditori. Non è un concetto nuovo, ad ogni modo: “Le attività di impresa sono permesse e incoraggiate dalla legge perché sono un servizio alla società piuttosto che fonte di profitto per i suoi proprietari”, scriveva già nel 1932 Merrick Dodd, professore alla Harvard Law School. Il principio è in qualche modo insito nella natura stessa del capitalismo che forse per decenni è stato travisato o abbandonato. Si tratta di riprenderne in mano l’essenza e riscoprire che la crescita è qualcosa che va sempre condiviso. Perché altrimenti il futuro sarà un’utopia riservata a pochissimi.