Il cibo è cultura, la terra è ricchezza
Semplificando al massimo, il cibo è sopravvivenza: l’alimentazione è quel fondamentale processo attraverso il quale, a livello biologico, otteniamo le energie e le sostanze che permettono al nostro corpo di funzionare. Ma è anche molto di più: “I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento”, così si esprimeva alla metà dell’Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, famoso soprattutto per aver coniato l’espressione “L’uomo è ciò che mangia”.
Se siamo ciò che mangiamo è inevitabile dunque che ci definiamo attraverso questo fondamentale fattore. Che noi italiani abbiamo la pizza, i francesi la baguette, gli orientali il riso e gli americani gli hamburger non è un fatto irrilevante. In un episodio della serie di documentari Cooked, disponibile su Netflix, il grande scrittore Michael Pollan, autore di saggi capolavoro come Il dilemma dell’onnivoro e La botanica del desiderio, sovverte in modo interessante ma altrettanto suggestivo questo concetto. Parlando di alimenti respingenti per alcuni popoli e sfiziosi per altri, afferma: “In qualche modo i cibi fermentati sono uno dei modi in cui costruiamo la nostra cultura alimentare, anche attraverso il disgusto. A noi piace questo cibo che a voi repelle”. Ecco dunque perché i finlandesi mangiano lo squalo lasciato imputridire, i cinesi le uova macerate sotto terra o i francesi i formaggi dall’odore particolarmente macilento.
In positivo o in negativo che sia, appunto, il cibo è molto di più di una lista di piatti che vediamo scorrere in un menu. Attraverso i millenni l’evoluzione del gusto alimentare ha fatto sì che sviluppassimo di conseguenza precisi tratti della nostra cultura e della nostra società: attraverso l’agricoltura e l’allevamento abbiamo definito i nostri spazi sociali e il nostro attaccamento al territorio; l’evoluzione del pasto ha portato alla creazione del concetto di convivialità e anche di ospitalità (dall’Antica Grecia al Medio Oriente, fondamentale era, per onorare l’ospite, dargli il miglior cibo presente in casa); e ancora il cibo ha fatto progredire la ricerca medica, scientifica e tecnologica, per far sì che potessimo conservarlo, produrlo al meglio e in quantità abbondanti, renderlo più sano e nutriente.
E se il cibo cementa i legami sociali è anche in grado di sovvertirli: fin dall’antichità i popoli nomadi e guerrieri si spostavano di terra in terra per conquistare nuovi spazi coltivabili; la Great Famine irlandese del 1845-49, durante la quale il sostentamento principale della popolazione, ovvero la patata, venne a mancare, provocò migliaia di morti ma anche l’inizio del nazionalismo che portò all’indipendenza dal Regno Unito; più di recente, le Primavere arabe sono nate, fra le altre cose, dopo che le condizioni di vita negli Stati del Maghreb erano state esasperate da diverse stagioni di scarsi raccolti di cereali. In altre parole sarebbe quasi possibile riscrivere una storia del mondo attraverso i fatti legati al cibo.
Anche gli aspetti più banali della nostra espressione culturale sono legati al cibo, in particolare molte superstizioni. Sprecare il sale porta sfortuna perché per svariati secoli è stato l’unico modo per conservare la carne e la sua scarsità avrebbe portato alla fame; il pane non deve essere mai gettato perché spesso era l’unico alimento in tavola, da riutilizzare anche raffermo; per non parlare delle lenticchie che portano ricchezza e l’aglio che scaccia gli spiriti maligni (e i vampiri). Stessa cosa vale per il nostro linguaggio, disseminato di modi di dire gastronomici, dal “buono come il pane” alla “gallina dalle uova d’oro”, da “piangere sul latte versato” al più generico “parla come mangi”.
Il legame fra cibo e cultura è qualcosa di universale, ancestrale e se vogliamo elementare. Tutto ci riporta agli elementi più basilari del nostro mondo: con l’acqua facciamo crescere i campi, abbeveriamo gli animali, bolliamo gli ortaggi e la pasta; con l’aria facciamo lievitare il pane; con il fuoco cuciniamo (e come disse il grande antropologo Claude Lévi-Strauss “il fuoco è l’invenzione che ha reso umani gli umani”). E poi c’è la terra: tutto viene da lì, non solo dalla superficie che calpestiamo e dalle cui piante cogliamo frutti e ortaggi; ma anche dal sottosuolo in cui piantiamo semi e tuberi. O ancora, come ci ricorda sempre Pollan, in cui proliferano i batteri fondamentali alla fermentazione, senza la quale non avremmo il cioccolato, la birra, i formaggi.
Dei quattro elementi la terra è forse quella più legata alla nostra cultura alimentare: trovare il terreno giusto per coltivare o allevare significa anche definire il luogo migliore in cui costruire case, villaggi, città. E prendersi cura di quello stesso terreno significa anche mettere a punto uno stile di vita, una serie di abilità e professioni, un senso dello scorrere del tempo e delle stagioni. Oggi, poi, vuol anche dire impegnarsi per preservare una risorsa importantissima, spesso messa a repentaglio da inquinamento, urbanizzazione selvaggia, impoverimento della produttività, oblio di saperi ancestrali. Forse la sfida tecnologica più grande dei decenni a venire, infatti, si giocherà proprio sul modo in cui riusciremo a preservare la nostra terra. Riscoprendola come fonte inestimabile di cibo e, dunque, di cultura e di ricchezza.