Per trovare lavoro in un mondo che cambia, porta ai colloqui idee e non (solo) titoli
Sembra incredibile, ma alle soglie della più grande rivoluzione tecnologica, culturale e sociale che il mondo abbia mai conosciuto, c’è ancora moltissima gente che cerca un posto di lavoro come quelli cui erano abituati i nostri genitori e nonni.
Un posto fisso, sicuro, da dipendente, con uno stipendio che basti per vivere bene e per mettere su famiglia, comprarsi una casa, una macchina, andare in vacanza al mare o ai monti e togliersi qualche sfizio, tra un Black Friday e un Cyber Monday.
Quest’orda di cercatori d’oro del nuovo millennio è perfettamente consapevole di quanto sia difficile trovare un “posto”, ma si fa forte di competenze, titoli, esperienze pregresse e infinita pazienza, confezionando curriculum e affrontando colloqui e selezioni, come se il tempo che passa non fosse altro che un trascurabile ostacolo tra il limbo della disoccupazione e la vita vera, certificata da stipendio e contributi.
Molti di loro hanno ben poche speranze, a dire il vero, e alcuni sono già finiti nelle schiere dei cosiddetti “scoraggiati”, rinunciando alla ricerca del “posto”; ma chi le competenze, i titoli e tutto il resto ce l’ha in regola, non può e non deve lasciare che questi siano l’unica variabile e credenziale da mettere sul campo.
Il mondo è pieno di gente preparata, competente, titolata e perfettamente in grado di svolgere un determinato lavoro, infatti. Gente che può dare molto e che sul mercato vale e sa farsi valere, contro la quale non bastano titoli, referenze e skill. Essi rappresentano una condizione necessaria ma non sufficiente, in un mercato del lavoro affollato e competitivo.
Un mercato i cui principali referenti hanno da tempo iniziato a capire che forma e sostanza devono andare a braccetto e che le risorse umane sono un capitale fatto di persone, non di macchine. Una consapevolezza importante, alle soglie del più massiccio ricorso ad automazione e robotizzazione della storia del lavoro.
Le persone non sono macchine e, in quanto tali, a parità di requisiti e di potenziale, esse hanno tra loro enormi differenze, che le caratterizzano e le distinguono, nel bene e nel male.
Questo vale per tutti e in ogni circostanza. Vale anche per chi non cerca il “posto fisso” ma partner, clienti e collaboratori per lavorare in proprio o mettere in piedi un’azienda.
Sono le differenze tra le persone ad aggiungere o togliere opportunità e tra le tante differenze una, in particolare: la passione, la voglia di far bene nel proprio settore, il desiderio di metterci qualcosa di proprio, che trascenda le competenze e che metta davvero nelle condizioni di essere determinanti, di aggiungere valore vero.
Ma in cosa consiste fondamentalmente questo valore? Come si fa a far capire a chi ci sta facendo un colloquio di selezione che noi siamo la persona giusta al momento giusto? Chi ama davvero il proprio lavoro sa che per svolgerlo al meglio non basta saper fare quello che serve e avere disponibilità, concentrazione, elasticità mentale e capacità di applicazione. Queste basi, per fondamentali che siano, non potranno mai compensare il solo e unico requisito che qualsiasi lavoratore dovrebbe avere, per essere appetibile sul mercato del lavoro e per convincere qualcuno ad assumerlo e a tenerselo stretto in azienda.
Quel requisito, purtroppo non comune e non semplice da perseguire, consiste nella capacità di fare un passo oltre; quello che J.F. Kennedy chiese al popolo americano il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1961: “Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country“.
“Non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese” ed è senz’altro questo, che un ottimo candidato in cerca di lavoro dovrebbe fare. Presentarsi alla selezione con un’idea chiara di cosa potrebbe fare per l’azienda cui sta chiedendo lavoro. Cos’è che potrebbe portare? Solamente delle competenze o anche delle idee? Cosa sa dell’azienda cui sta bussando alla porta? Quale plusvalore potrebbe portare, una volta assunto?
Timbrare il cartellino e sedere dietro a una scrivania per otto o più ore non basta più a nessuna azienda. Non è questo che serve, perché i lavori di routine e di “scartoffie” che hanno svolto per anni i nostri genitori non esistono più, oppure sono stati automatizzati e delegati alle macchine.
Ciò che serve alle aziende è invece passione, creatività, capacità di guardare le cose e proporre una strada nuova, risolvendo problemi e creando nuove opportunità. Ecco perché nessuno dovrebbe più sprecare l’opportunità di un colloquio di lavoro parlando solamente di sé, dei suoi titoli, delle sue competenze e capacità. Questo bagaglio è soltanto un prerequisito, per fondamentale che sia, ma spesso non basta per attirare davvero l’attenzione e per fare la differenza.
Serve invece un approccio olistico, che non si limiti alle singole parti della proposta ma che la consideri nella sua interezza, creando motivi di attrazione che non si basino soltanto su quello che siamo, ma su ciò che possiamo e che vogliamo dare a chi ci concederà la sua fiducia. Non siamo ciò che sappiamo fare, infatti, e nemmeno come lo facciamo: siamo ciò che facciamo, che è la sommatoria di competenze, vision, personalità, mentalità, passione, creatività, disponibilità, coraggio, determinazione e molto altro ancora, che difficilmente potremo imprigionare in un curriculum, ma che sarà determinante mettere in evidenza durante la selezione. Cosa fareste, dunque, per l’azienda in cui vorreste lavorare? Quale valore portereste? Rispondete bene a queste domande e il lavoro sarà vostro.