Trasformare il dolore in una grande risorsa: ecco il senso profondo della resilienza
Dell’idea di resilienza – da qualche tempo così popolare – sto probabilmente facendo un uso non molto ortodosso: ma credo che ogni grande idea debba sempre, per non diventare lo stereotipo di se stessa, lasciarsi in qualche modo allungare, allargare, espandere. È in questo senso che alla declinazione psicologica e a quella più tecnica e ingegneristica di resilienza preferisco una lettura sportiva: quella che nel gergo dei commentatori suona come “trasformare l’azione da difensiva in offensiva”. Può sembrare una forzatura impropria: ma permettetemi di considerarla invece una necessaria evoluzione.
Ma prima di spingerci in alto e in avanti, cominciamo dalle fondamenta. Possiamo parlare di relazioni sentimentali, di talenti sportivi e/o artistici, di progetti e lavori, di mille altre cose diversissime, ma alla fine c’è sempre una regola che vale per tutte: più o meno tutti sono bravi a navigare quando il mare è tranquillo, ma è quando il vento ti soffia contro, quando ti ritrovi sotto grande pressione, quando le circostanze non sono per nulla favorevoli, che si vede davvero il carattere, la forza, la natura di una persona o di una relazione o di un progetto. Tutti conosciamo gente – potete stare certi che ce n’è qualcuno nel raggio di trenta metri dal punto in cui vi trovate ora – che in condizioni di benessere ostenta sicurezza e che puntualmente si sgretola quando si trova ad affrontare scelte più ardue. Tutti conosciamo matrimoni e passioni e storie d’“amore” – fate conto ancora quei trenta metri – che stanno in piedi solo finché non tira vento.
Temo sia inevitabile che nell’esistenza di ognuno – chi molto più, chi fortunatamente meno – ci siano difficoltà, disfunzioni, momenti di sconforto e di abbattimento, situazioni complicate e dolorose. È qui che – cedere e lasciarsi prostrare non è un’opzione – reagire alle avversità, autoripararsi, diventa la sola soluzione. Personalmente ho sempre visto soprattutto nel femminile questa meravigliosa capacità – fisica e psicologica – di accettare il dolore senza rimuoverlo, di lasciarsi attraversare da esso, e alla fine di usarlo non banalmente per resistere ma per rigenerarsi. Perché tenere duro non basta, anche se ci sono momenti in cui non possiamo fare altro che tenere duro. Non si tratta di fare di necessità virtù, ma proprio di crescere attraverso la difficoltà e il dolore.
Permettetemi di tornare allo sport, che personalmente mi è stato fondamentale per la formazione del carattere. Sul finire della sua maestosa carriera di giocatore di basket, un giorno all’ultimo minuto di gioco di una partita Kobe Bryant sente qualcosa che si spezza: è il suo tendine di Achille che è andato in frantumi. In quel momento lui con un gesto tanto disperato quanto come non mai resiliente prova con le mani a riaggiustarsi il tendine, poi invece di accasciarsi va in lunetta per tirare i due tiri liberi che gli spettavano per il fallo subito (e naturalmente li segna entrambi). Può essere la fine della sua carriera, ma negli spogliatoi a fine partita lui reagisce così: “Ci sono sfide più grandi al mondo che un tendine d’Achille. Smettila di compiangerti, cerca la luce nel buio e vai a lavorare con la stessa fede, la stessa passione e la stessa determinazione di sempre”.
Ecco, questa per me è la versione propulsiva della resilienza, quella che trasforma l’azione da difensiva in offensiva, quella che ti spinge a crescere attraverso il dolore. Perché è proprio nei momenti di crisi che si devono nutrire sentimenti più forti, superiori slanci inventivi. Si chiama forza vitale, fa sempre e comunque tutta la differenza del mondo.