Perché sapere di non sapere farà di te un essere umano migliore
Io so, di non sapere.
Socrate
Rileggendo una delle tesi più famose di tutta la storia della filosofia, quella della “docta ignorantia” che Socrate espose in un momento drammatico della sua vita, durante il processo a suo carico che si concluderà con la sua condanna a morte, mi rendo conto di quanto sia attuale e nello stesso tempo distante il pensiero socratico dalla nostra vita quotidiana.
L’equilibrio tra la fiducia nella ragione e la profonda consapevolezza della propria ignoranza è uno dei doni più preziosi che il filosofo greco ha lasciato in eredità all’umanità, ma questa consapevolezza nell’era della comunicazione totale, di overload comunicativo, nel quale ogni affermazione contiene in sé la presunzione di verità, va esattamente all’opposto della tesi.
Provando a essere sinceri, possiamo scoprire che le nostre conoscenze sono sempre più fondate sul sentito dire, sulla lettura di qualche articolo, risultato di informazioni superficiali, prodotto di una conoscenza frammentata in mille rivoli di cui spesso non se ne conosce la fonte. Questo ben rappresenta il nostro tempo storico, il quale consente un’apparente accesso alla conoscenza ma in maniera orizzontale, trasmessa sempre più spesso attraverso i social e che influenza e contamina il nostro modo di pensare e conoscere.
La Rete è una straordinaria opportunità che ognuno di noi ha a disposizione, ma è anche un luogo di dispersione nel quale è difficile verificare e soprattutto organizzare per importanza di contenuto. Fino a pochi anni fa c’erano dei filtri attraverso i quali si poteva provare ad andare in profondità su degli argomenti selezionati: pensate alle enciclopedie che avevano la funzione non soltanto di conservare un sapere comune, ma anche di filtrarlo, di dare delle priorità.
Perché oggi è così importante rendersi conto di sapere di non sapere?
Tornando a Socrate: “La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere; perché io so di sapere più di te, che pensi di sapere”, soffermatevi a riflettere un momento… Il tema è la differenza tra saggezza e conoscenza che non sono assolutamente la stessa cosa. L’uomo veramente saggio, accorto, avveduto, attento e non “che sa tutto” è consapevole di non poter possedere tutto lo scibile e pertanto è pronto ad imparare continuamente e a migliorarsi con umiltà, a mettersi in discussione ogni giorno, ogni istante, ascolta ed è capace di condividere a differenza di chi al contrario, crede di sapere tutto, mentre molto spesso è solo presunzione e convinzione, che derivano da conoscenze orizzontali riguardo ad alcuni argomenti di cui parliamo, frutto del desiderio di riconoscimento e di affermazione.
Questo celebre motto può apparire paradossale, ma contiene in sé una grande verità e cioè che all’uomo non è dato di sapere, ma solo di constatare la sua ignoranza. Chi possiede una profonda consapevolezza della propria “nullità intellettuale” può davvero definirsi saggio.
Un’altro famoso detto socratico “Uomo conosci te stesso”, parte dal presupposto che l’uomo, per natura, non saprà mai tutto, allora Socrate sposta lo sguardo sulla ricerca introspettiva, che è la fonte della sapienza di ogni essere umano. Possiamo soltanto ricercare la consapevolezza nella nostra esistenza, rendendoci conto che l’ignoranza è una condizione legata alla nostra stessa natura, tenendo ben presente che non esistono risposte universali ma percorsi umani individuali di conoscenza.
Così dire “so di non sapere” significa conoscere l’esatto limite tra conoscenza e non conoscenza. Riconoscendo il territorio della conoscenza, siamo padroni dei presupposti del nostro ragionamento e possiamo fare domande orientate ed intelligenti per far progredire il nostro sapere, perché sono le domande ben poste che muovono lo sviluppo umano. Se dicessi per esempio “non so abbastanza” ci sarebbe vaghezza in questa consapevolezza, sarebbe priva di direzione, vorrebbe dire in fondo che sono poco consapevole anche delle mie conoscenze.
La metodologia socratica di fatto però è basata sulle domande, più che su affermazioni – che non possono che essere espresse in forma dubitativa – per cui l’interrogato arriva a una nuova consapevolezza grazie a domande intelligenti e orientanti che gli vengono poste, le domande perciò permettono la verticalità, l’approfondimento, di andare verso se stessi anziché fuori da noi.
Facciamo un esempio semplice: ci sono zero gradi e mia nipote di dieci anni esce in maglietta per andare a sciare e io credo si possa prendere un malanno, potrei così dirle: “Mettiti subito una giacca a vento” oppure potrei in maniera socratica domandarle se non sente freddo. Nel secondo caso la obbligherei a ragionare sulla percezione del caldo o del freddo, molto probabilmente si accorgerebbe che non si era resa conto di avere freddo e mi chiederebbe dove è stata messa la giacca a vento che le tiene più caldo.
Credo pertanto che la capacità di introspezione, di verticalità debba essere recuperata perché in tempi di estrema vulnerabilità, per difenderci dall’invasione continua che riceviamo da mille canali ciò possa permetterci di ritrovare un luogo sacro dentro di noi nel quale possiamo comprendere e ritrovare la giusta distanza dalla quotidianità, una neutralità che ci sostenga a ritrovare quella gentilezza e cura per noi stessi e per chi ci circonda che emerge in coloro che hanno sperimentato di sapere di non sapere e che sanno relazionarsi agli altri in maniera sobria con l’obiettivo di creare in ogni incontro una possibile crescita reciproca.
Il non-sapere è la nostra più grande ricchezza e opportunità che smuove la creatività e ci rende capaci di cambiare, anzi di migliorare.