Fatto il Giro d’Italia, facciamo gli italiani: come una gara ciclistica ha unito un intero Paese
“Scommettiamo un caffè che il vostro Coppi le prende oggi?”, aveva proposto Nani Alba di Tombolo, il mio paese natale, all’alba della Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia 1949. “Un caffè? La casa, scommetto”, rispose duro Rino Scataron. Ne seguì quella che viene ricordata come la più bella tappa della storia del Giro: Fausto Coppi fa l’impresa, praticamente volando, e semina di gran lunga l’acerrimo avversario Gino Bartali. E il Nani dovette chiudersi in casa e fingersi morto.
Ricordo sempre con piacere questo episodio che da bambino, già appassionato di ciclismo, mi colpì moltissimo. Perché il Giro è sempre stato più di una semplice gara ciclistica: oltre ad essere la più bella del mondo, è un modo per accendere gli animi, per far appassionare le persone, per molti ha rappresentato una fede e anche un motivo per provare orgoglio e sentirsi convintamente italiani. Percorrendo tutta l’Italia, dalle Alpi al Sud, dall’Adriatico al Tirreno, ha unito un intero popolo.
Fra le due guerre e a maggior ragione negli anni Cinquanta la bicicletta era un bene inestimabile: la “macchina a pedali”, come la chiamavano i Futuristi, era essenziale per spostarsi in città e anche fuori. Mio padre, che faceva il mediatore, prima era costretto a farsi ogni giorno chilometri e chilometri a piedi per incontrare i contadini: con la bicicletta diminuì la fatica e aumentò il giro d’affari. Le famiglie che ne possedevano una la trattavano con cura, proteggendola e nascondendola nei fienili per non farsela rubare.
Non sorprende dunque che le bici fossero la passione più grande degli italiani e il ciclismo, allora, uno sport ancora più seguito del calcio. E che la prima edizione del Giro, organizzata dalla Gazzetta dello Sport di Eugenio Costamagna nel 1909, avesse così attirato l’attenzione delle folle che l’itinerario delle ultime tappe, compresa la conclusiva del 30 maggio a Milano, fosse tenuto segreto per evitare problemi di ordine pubblico.
Io stesso, quando riesco a rubare qualche ora alle mie attività, salto in sella e mi dedico a un bel giro in bicicletta: libera dai pensieri, fa correre l’immaginazione e soprattutto mi fa tornare tutti i personaggi, le corse e gli eventi che hanno fatto la storia del Giro d’Italia. Ma al contempo è anche il Giro che ha fatto la storia del nostro Paese: nel libro che ho scritto con Pier Augusto Stagi, 100 storie un Giro (appena pubblicato da Mondadori), ripercorriamo da veri appassionati le tappe più emozionanti e memorabili, ma anche quelle che hanno significato di più per l’Italia intera.
Come il Giro del 1914 che, conclusosi appena un mese prima dell’attentato a Sarajevo, fu considerato il giro dei record, con la tappa Milano-Cuneo di ben 420 chilometri da affrontare in un solo giorno. Oppure quello del 1931, in cui fa per la prima volta la sua comparsa la maglia rosa, da allora sinonimo inconfondibile di primo classificato. O ancora l’edizione del 1953, che ricorderò per sempre a causa dell’amara sconfitta di Fausto Coppi nella Auronzo-Bolzano. Fu quel giorno che mio padre mi diede un’importante lezione di vita, racchiusa in una sola frase: “C’è anche domani”, un monito di riscatto che ha dato il titolo anche alla mia autobiografia del 2014. E in effetti il giorno dopo, contro ogni pronostico, Coppi rimontò straordinariamente sullo Stelvio nella Bolzano-Bormio e si aggiudicò anche quella competizione.
Abbiamo tutti aneddoti così, ricordi più o meno speciali legati a questo o quel campione, a questa o quell’annata. Il Giro d’Italia è una specie di collante che, anche in momenti di grandissima divisione per il nostro Paese, ha fatto da cemento e da passione comune. Come disse Massimo d’Azeglio all’indomani dell’Unità, “fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”: di sicuro a questo ha contribuito anche una gara la cui centesima edizione si svolgerà a partire dal 5 maggio prossimo.