Verso un'azienda umana che punti al benessere del dipendente e susciti gratitudine
C’è un posto in cui, nonostante tutti i nostri sforzi per renderla diversa o comunque degna di essere vissuta, passiamo la maggior parte della nostra vita: il luogo di lavoro. Che sia una bella scrivania guadagnata con fatica, un magazzino, un ristorante, uno sportello o la propria abitazione: buona parte della nostra giornata e del nostro definirci come persone è dato dal lavoro che facciamo, dalle relazioni che per questo motivo intratteniamo, dagli obiettivi che ci poniamo e da quello che ci viene chiesto di fare. Un luogo in cui veniamo valutati in base a dei parametri più o meno oggettivi: il profitto, la nostra professionalità, la nostra capacità di dare un apporto significativo in termini di originalità e di risoluzione dei problemi, il nostro saperci inserire in un contesto, il rispettare gli impegni presi.
Tra tutti soffermiamoci su questo punto. Sono certa che sarete d’accordo con me: nel percorso di carriera l’affidabilità ha un peso enorme. D’altra parte chi assumerebbe, o nel caso di un freelance, chi lavorerebbe con qualcuno che non è preciso nel consegnare quello che deve, che non lo faccia con rigore e nei tempi previsti? Diciamocelo: a parte il caso di quando si ha a che fare con qualche genio (magari intriso di quella “sregolatezza” che lo rende così affascinante) quasi nessuno. Eppure ci sono dei momenti in cui quell’affidabilità viene meno.
I dipendenti sono prima di tutto delle persone
Chi era così brillante, partecipe, a un certo punto si spegne; chi consegnava puntualmente il suo lavoro finisce con il tardare e arrancare scuse; chi sapeva portare in azienda i migliori clienti finisce con il non arrivare a nessun risultato. Capita, direte: ci sono sempre alti e bassi e magari le motivazioni sono la stanchezza, l’avere lavorato troppo, lo stipendio troppo basso, il capo che non ti valorizza, il collega che ti pesta i piedi o ti fa mobbing, il vivere troppo lontano dall’ufficio ecc… E in molti casi è così: il peggioramento sul lavoro ha le sue cause nel mondo del lavoro stesso.
Ma spesso i motivi trascendono quel perimetro e hanno a che fare sempre più con la vita e meno con il lavoro. La dicotomia è voluta: ci sono cose di vita che sul lavoro non è “consentito” portare. Il che va bene, ma fino a un certo punto.
Perché tutti i lavoratori sono delle persone e se un’azienda vuole essere davvero ingaggiante, farsi promotrice di certi valori, non deve farlo solo all’esterno, ma deve guardarsi dentro e coltivare quello che ha dentro. Deve considerare il capitale umano – contro quello meramente finanziario – davvero umano.
Ci sono dei momenti in cui la vita si ferma, così come succede di fronte alla morte. D’altronde, come potrebbe essere diversamente? E quando a un dipendente muore qualcuno – genitore, fratello, sorella o altri parenti – sicuramente la Legge gli viene incontro: ha fino a tre giorni (dipende dal grado di parentela del defunto, in caso sia un amico di nessun giorno) per avere modo di attutire il colpo e sistemare le cose burocratiche. E poi dovere tornare al lavoro. Per alcune persone una distrazione necessaria, per altri una grande costrizione in un momento in cui non si riesce a fare nulla, specie se come è successo a me (ne ho parlato sul mio blog su Medium) è avvenuto all’improvviso e a oltre mille chilometri di distanza. A tutto pensi fuorché a essere preciso e puntuale perché non lo sei neanche con te stesso.
Come questa, ci possono essere altre situazioni gravi: accudire un parente malato, fare il giro degli ospedali per capire cos’ha tuo figlio o vivere il dramma di un divorzio ecc… E in questi casi, a volte e per fortuna ci sono delle soluzioni che a volte vengono dal basso, come è successo a questa donna veneta a cui i colleghi hanno regalato le loro ferie, con il placet dell’azienda e grazie a una legge, il Jobs Act, che consente di farlo.
Come un’azienda può garantire benessere e attivare gratitudine
Ma di suo cosa deve fare un’azienda? Se davvero vuole considerare i suoi dipendenti come persone, deve cercare di attivare ascolto, empatia e garantire davvero il benessere al lavoro. Gli asili nido aziendali, le palestre, le aree relax con calcetto e altro sono sicuramente importanti, ma è in casi come questi che bisogna fare quel passo in più che fa sì che il dipendente possa sentirsi davvero ascoltato. Capire quali sono le sue esigenze in quel momento e, ovviamente tenendo conto anche delle priorità aziendali, come potergli venire incontro.
Concedere lo smart working, dare la possibilità di lavorare in un coworking per un certo periodo di tempo (anche se c’è dietro un piccolo impegno economico), garantire flessibilità in entrata e in uscita a chi magari fa avanti e indietro negli ospedali che hanno degli orari di visite che cozzano con quelli d’ufficio, evitare riunioni in certi orari, mail e chiamate in momenti delicati, così come dare la possibilità di recuperare delle ore o concedere dei permessi con molta più facilità di quanto si possa fare di solito. Sono tutte azioni che aiutano il lavoratore in quanto persona e che sicuramente portano alla costruzione di un altro valore – di cui si parla molto anche nel marketing – che è la gratitudine. Quella che, in un momento così delicato e in cui ogni piccola azione concreta ti è di aiuto, ti porta a fidarti dell’azienda in cui lavori e delle persone con cui lo fai, quella che va di pari passo con trasparenza e fiducia.
Vale anche per i freelance
Tutto ciò vale anche per i freelance e il loro rapporto con i clienti: se è vero che chi ha esperienza deve poterli sapere scegliere, è anche vero che è importante che dall’altra parte ci sia ascolto e comprensione per lavorare al meglio. Come mi ha raccontato Michela Calculli, blogger e copywriter: “Ho vissuto un momento molto difficile a causa dei problemi di salute di mio figlio e restando giorni e giorni in ospedale a tutto pensavo fuorché a lavorare. Così l’ho detto ai miei clienti e quasi tutti mi hanno aspettato dicendo di dedicarmi alla mia famiglia e a risolvere i miei problemi. Questo mi ha fatto capire di lavorare con persone davvero di valore e ha migliorato il mio rapporto con loro: avevano saputo dimostrarmi umanità in un momento in cui ne avevo bisogno e volevo ricambiare lavorando al meglio”.
Quell’umanità sul lavoro di cui in fondo parlava anche Adriano Olivetti: “Io penso alla fabbrica per l’uomo, non all’uomo per la fabbrica”.