Le parole sono importanti, selezioniamole con amore
Quanti ricordano questa scena famosa, tratta da un film italiano molto amato?
Reporter: Io non lo so, però senz’altro lei ha alle spalle un matrimonio alle spalle… è a pezzi…
Michele: Che dice???
Reporter: Forse ho toccato un argomento che non…
Michele: No… no… è l’espressione. Non è l’argomento, non è l’argomento, non è l’argomento… è l’espressione. Matrimonio a pezzi! Ma come parla…!?!?!
Reporter: Preferisce “rapporto in crisi”? Però è così kitsch…
Michele: Kitsch! Dove le andate a prendere queste espressioni, dove le andate a prendere queste espr…??!??! (toccandosi il cuore)
Reporter: Io non sono alle prime armi…
Michele: Alle prime armi… ma come parla?!
Reporter: …anche se il mio ambiente è molto “cheap”…
Michele: Il suo ambiente è molto…?
Reporter: È molto “cheap”
Michele: Ma come parla? [schiaffo sonoro]
Reporter: Senta, ma lei è fuori di testa!
Michele: E due. Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parlaaaaaaaaaa!
Diceva bene Michele Apicella, alias Nanni Moretti, in Palombella Rossa (1989): le parole sono importanti. Troppo spesso, invece, tendiamo a darle per scontate: usiamo la prima che ci viene in mente, senza farci troppo caso, senza riflettere su quale sarebbe il termine più preciso, più adatto alla situazione. Al contrario, ogni scelta lessicale ha delle conseguenze: le parole possono aprire porte, provocare ferite, risolvere problemi e crearne.
Ecco, allora, i miei tre semplici princìpi dai quali farsi aiutare nella scelta della parola giusta.
– Il primo è la comprensibilità. La comunicazione è un atto cooperativo, in cui nessuno è veramente passivo, né l’emittente né il destinatario. Lo sforzo dell’emittente deve essere quello di riflettere sulle caratteristiche del suo interlocutore per cercare di essergli massimamente comprensibile. Per esempio, un medico dovrebbe chiedersi quando usare il termine rash cutaneo e quando arrossamento della pelle, a seconda di chi ha davanti.
– Il secondo è la precisione. Le parole, anche quando hanno significati simili, raramente sono sinonimi perfetti. Quasi sempre hanno differenze anche minime di significato di cui occorre, ovviamente, tenere conto. Tali sfumature possono essere:
a) significato più o meno specialistico (es. mal di testa e cefalea);
b) registro, cioè stile, più o meno alto (magione e abitazione);
c) ampiezza geografica dell’uso della parola (granata toscano e scopa, italiano standard);
d) significato più o meno ampio (gatto e felino; in questo caso si parla di iponimi e iperonimi), e così via.
Ogni volta che preferiamo una parola a un’altra, occorrere avere ben chiaro ciò che si vuole veicolare.
– Il terzo è l’amore. Come nota Michele Apicella, l’uso di un termine inglese innecessario (cheap, nell’esempio), o di una parola consunta dall’uso, un plastismo, come li chiamava la linguista Ornella Castellani Pollidori (un matrimonio alle spalle, nell’esempio, ma anche espressioni come dolore composto, weekend da bollino nero, lato B) sono segno di un vero e proprio disamore per la lingua. L’italiano è una lingua ricchissima (le stime più pessimistiche parlano di 300.000 parole), di cui conosciamo generalmente solo una piccola parte (all’incirca un sesto). Quindi: amiamo la nostra lingua, ricorriamo al vocabolario per trovare parole nuove, evitiamo di usare e riusare sempre le stesse. Ricerchiamo, insomma, la “scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”, come ci ricorda Italo Calvino in Lezioni Americane (1988), in particolare nella lezione dedicata all’Esattezza.
Sarebbe auspicabile essere chiari, precisi e non solo italòfoni, parlanti dell’italiano, ma italòfili, amanti della nostra lingua. La nostra comunicazione ne trarrà senz’altro beneficio.
Del resto, come scriveva Albert Camus nel suo romanzo “La peste” (1947), “Dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”.