È finita l’era dei divi: oggi al centro del palcoscenico del marketing ci siamo tutti noi
Influencer marketing: se ne sta parlando ovunque, dai blog ai social media, e addirittura sulle pagine dei quotidiani nazionali. Molti sono convinti però che sia soltanto un abbaglio che troppe aziende stanno cavalcando, spinte da agenzie e consulenti interessati e un po’ troppo disinvolti. La rete sta cambiando radicalmente le abitudini delle persone, il loro modo di comunicare, acquistare, usufruire di servizi e opportunità, di restare in contatto con gli altri e conservare i propri documenti, i ricordi, i dati e i numeri importanti.
Questo cambiamento, dirompente ma ancora in divenire e ben difficile da comprendere a fondo, ha ovviamente influito anche sulla comunicazione e sul marketing delle aziende, che da sempre si sforzano di trovare le strade più dirette per arrivare al proprio target. Un cambiamento difficile da decifrare per chi da sempre utilizza il megafono per urlare alla gente e per fare fatturato, e che oggi è costretto a valutare nuove dinamiche e modalità di approccio.
Come spesso è accaduto in passato, anche questa volta il cambiamento è stato interpretato più come «facciamo qualcosa di vecchio in un modo nuovo», che non come un più adeguato «rinnoviamo noi stessi e il nostro modo di vedere le cose» in funzione dei nuovi strumenti e opportunità offerti da internet e dalle tecnologie che esso ha abilitato.
Così è successo che l’evoluzione di una figura centrale, come quella dell’influencer, non sia stata dai più compresa e apprezzata nelle sue potenzialità e peculiarità, ma piuttosto considerata per similitudine rispetto ad un altra figura, da decenni ben nota e sfruttata dalle aziende e dalla pubblicità: quella del testimonial, che a ben vedere ha davvero poco ha in comune con gli influencer.
A chi si chiede se questi ultimi esistano davvero, è bene ricordare che gli influencer esistono da sempre e che il mondo degli affari se n’è già servito in passato, in modo più o meno consapevole ed esplicito.
Chi immagina l’influencer come un guru acclamato dalle folle, infatti, non ha esperienza che della punta di un iceberg, sia pur confinante con quello dei testimonial e delle celebrità, ignorando però tutto quello che c’è sotto il pelo dell’acqua, nel colorato e affollato macrocosmo di quelli che alcuni definiscono “middle power influencer”.
In quel “mezzo” così “potente” non ci sono superstar né guru, almeno non in senso assoluto, ma centinaia di migliaia di persone, forse addirittura milioni, che quotidianamente esercitano la loro influenza su piccoli bacini di amici, parenti, conoscenti, colleghi di lavoro, lettori (nel caso dei blogger) o contatti sui social media. Se guardiamo ancora meglio, ci potremmo accorgere che, poco più in basso a quel “middle”, ci siamo alla fine tutti quanti noi, ciascuno nella sua dimensione, ognuno con le sue caratteristiche.
Quando parliamo di Influencer marketing, dunque, non ci riferiamo esclusivamente a personaggi famosi, guru e super esperti di una qualche materia ma, soprattutto, a un enorme bacino di influencer “di coda lunga”, in grado di rappresentare una risorsa preziosa per le aziende, a patto che esse non pretendano l’anima, come Mefistole con Faust, e non li inducano a comportarsi come dei testimonial, annientando il loro potenziale e, al contrario, esponendoli alla capacità sempre maggiore della rete di distinguere tra vera interazione e squallide “marchette”, tra coinvolgimento spontaneo e attività prezzolate, poco oggettive e volte soltanto alla convenienza personale di chi le mette in campo.
Inutile dire che, ad oggi, le esperienze del secondo tipo abbondano sul mercato, mentre rare e preziose sono quelle improntate a una conversazione autentica tra aziende e influencer, siano essi top level o middle power, perché ad aziende, agenzie e consulenti in fondo conviene ancora ragionare nei vecchi termini, anche se funzionerà poco o niente, come del resto sempre meno funziona certa pubblicità in TV o alla radio.
Il punto però è che la bolla del “marketta influencer marketing” è destinata a deflagrare malamente, al contrario di una nuova modalità di approccio che vedrà, nei prossimi anni, un gran numero di “influencer di coda lunga” dialogare con le aziende senza alcuna pressione e interagire in modo sempre più proficuo, dando spazio alle idee, all’entusiasmo e alla passione, piuttosto che ai gettoni di partecipazione a conferenze stampa e presentazioni di prodotto o ai gadget.
Quest’epoca è finita, come presto finirà anche quella dei testimonial alla moda del secolo XX°, perché il nuovo palcoscenico vede al centro le persone, non i divi e nemmeno i prodotti, che sempre più saranno comprimari nella comunicazione e nel marketing delle aziende. Del resto se un prodotto o un servizio sono davvero buoni, non serve che io ti dica che li usano (o che fingono di farlo) attori, calciatori, cantanti o VIP. Serve che quel prodotto e quel servizio metta al centro le persone cui si rivolge, rendendoli partecipi e coinvolti.
Questo è il vero influencer marketing, dunque: una buona pratica in cui la filiera si accorcia e l’azienda si apre al contributo delle persone, che da consumatori passivi si elevano a membri di una grande famiglia, in cui nessuno grida dall’alto con un megafono, ma tutti sono coinvolti in una conversazione libera, costruttiva e capace di dar vita ad una vera community, in cui l’influenza nasce e cresce dal basso.