Le nostre carriere oggi? Un esame continuo, proprio come in un talent
Negli ultimi anni si è affermato il format del talent show: una gara a eliminazione e una giuria. Guardiamo i talent non solo perché ci piacciono le performance dei cantanti, dei ballerini, dei cuochi e dei comici, ma perché ci affascina il momento del giudizio, del feedback, della paletta col voto.
L’apice emotivo e il successo del format talent sta tutto in quel momento: negli occhi speranzosi e impauriti di chi gareggia di fronte al verdetto spietato dei giudici. Tutti noi restiamo lì appesi a quel verdetto: «Sentiamo un po’ che gli dicono, magari lo distruggono, magari litigano».
Il format del talent è una buona metafora per la nostra carriera professionale. Un tempo il pezzo di carta (la laurea, l’abilitazione, la licenza ecc.) era tutto ciò che bastava. I veri esami nella carriera erano oggettivamente pochi, si contavano spesso sulle dita di una mano. Oggi nel nostro percorso di carriera siamo molto più “esposti al verdetto” di quanto fossimo anche solo vent’anni fa. Veniamo valutati e scelti (o non scelti) continuamente, siamo molto più in vetrina, “sul palcoscenico” di quanto succedesse un tempo.
Per questo motivo diventa importante per il nostro percorso professionale essere attrezzati non solo per accettare i “verdetti” (nel mondo del lavoro li definiamo feedback) con maggiore serenità, ma anche per aumentare il numero di feedback che riceviamo. Più “verdetti” accogliamo più possibilità vere abbiamo di crescere e migliorare. È una banale indiscutibile verità. Come attrezzarsi? C’è un unico modo. Chiedere sempre: «Cosa hai apprezzato di più e cosa di meno nella mia performance? In cosa posso migliorare? Cosa dovrei fare di diverso per ottenere di più? Cosa non ha funzionato nel mio lavoro?». Dobbiamo andarci a prendere il feedback anche quando non è previsto.
Chiedere a chi è intorno a noi una valutazione sulla nostra performance anche quando il nostro capo, collega, cliente, maestro, allenatore se ne sta in silenzio e non sente il bisogno di commentare il nostro operato.
Prima che siano gli altri a darci il loro verdetto, magari in modo aggressivo e scomposto, chiediamoglielo noi, anticipiamoli. Quando lo facciamo otteniamo due risultati:
- I nostri “giudici” non hanno tempo di organizzare “giri di parole” e dunque tendono a dirci qualcosa di perentorio, di molto vicino a ciò che pensano
- Sono colpiti dalla nostra umiltà e si sentono responsabilizzati come autorevoli consiglieri. Sono quindi portati a solidarizzare con noi
La combinazione di questi due effetti mette i nostri giudici nelle condizioni di essere morbidi con noi e duri con il giudizio, esattamente ciò che deve essere un buon feedback, morbido sul piano personale, duro nel merito.
Non è facile chiedere un feedback. È facile parlarne in un articolo, è drammatico esporsi al giudizio degli altri nella vita vissuta, soprattutto quando sappiamo che c’è il rischio di “prendere schiaffoni”. Ecco perché più o meno consapevolmente evitiamo il più possibile di chiedere feedback a chi circonda. E quando sentiamo dire «se chiedi un feedback stai dando un segnale di insicurezza» stiamo sentendo una balla. È vero il contrario: solo chi è sicuro di sé si mette volentieri in discussione, si confronta serenamente con il mondo, con il mercato, con le opinioni degli altri.
Chi chiede feedback continuamente evita di andare avanti al buio. Evita di essere da un giorno all’altro licenziato/trasferito/demansionato/respinto/escluso. In questi casi è troppo tardi per lamentarsi: «ma non me lo potevi dire prima cosa non funzionava?» La risposta è una sentenza tanto dolorosa quanto logica e inappellabile: «e tu non potevi verificarlo prima?».