La scrittura ai tempi dell’hashtag. Una riflessione sulla forma di linguaggio più evoluta di tutte
Oggi chiunque di voi che mi state leggendo, e con voi almeno un altro miliardo di esseri umani, ha scritto qualcosa. Vent’anni fa invece sarebbero state poche migliaia di persone ad aver scritto qualcosa.
Probabilmente si tratta in schiacciante maggioranza di sms, mail, aggiornamenti di status su Facebook, nulla che possa insidiare il primato di Omero o di Shakespeare: ma in un modo o nell’altro noi esseri umani stiamo scrivendo come prima non era neanche immaginabile. Un miliardo e mezzo di post al giorno su tutto il pianeta sono la prova inequivocabile che la scrittura non ha mai goduto di così esuberante salute quanto ora.
Lasciatemelo dire allora: chi con aria dolente e ammonitrice lamenta sconsolato che la scrittura è in crisi può anche essere un grande intellettuale ma di evoluzione, e anche di scrittura, non se ne intende granché. Sono il primo a manifestare insofferenza se vedo una virgola fuori posto, e diciamo che stile, grammatica e sintassi del miliardo e mezzo di post quotidiani non mi verrebbe mai da definirli ineccepibili: ma per quanto spiacevole, il grammaticalmente scorretto è il prezzo da pagare per un’evoluzione senza precedenti del linguaggio scritto (e della stessa attitudine psicologica di chi scrive: ma di questo parleremo più tardi).
La barbarica invasione dei nuovi media ha generato una scrittura che, in maniera più immediata e più fisica, mescola linguaggio scritto e linguaggio parlato, narrazione, aforismi, squarci di personali biografie in diretta, slogan e mille altre cose che hanno divelto i paletti e il filo spinato fra i generi e gli stili.
Chiaro che a bassa quota tutto questo si presenta confuso e arruffato: ma in mani quel tanto più educate si traduce in un’evoluzione senza precedenti della qualità letteraria. C’è maestosa scrittura nelle serie tv (da Lost a Game of Thrones). C’è nuova vita in non pochi saggi scientifici e filosofici, infinitamente più vivaci e più attraenti, infinitamente meno pesanti e penitenziali di un tempo. C’è una spettacolare ricchezza inventiva nella cosiddetta letteratura di genere.
E fra tanti grandi autori della nostra epoca, prendete il più appassionante di tutti: si chiama Don Winslow e la sua scrittura, in particolare in Le Belve e ne I Re del Mondo, è la più eccitante e vitale: ricerca sul linguaggio moltiplicata per comunicativa potenza pop. Qualcosa che i più fedeli e accigliati pasdaran della purezza dello stile non raggiungeranno mai.
D’altra parte oggi abbiamo a disposizione un milione di parole, mentre qualche decennio fa erano soltanto cinquantamila: chiaro che l’eccellenza è un’altra cosa, anche con tre milioni di parole io non arriverei a fare il solletico a uno Shakespeare che ne avesse solo diecimila, ma tanta abbondanza non può non arricchire il nostro linguaggio e il nostro stesso orizzonte mentale.
E poi, ve l’avevo preannunciato, questa scrittura di massa sta producendo una decisiva spinta psicologica: perché è vero che tanti post sono intrisi di ingiustificata autoreferenzialità, ma più si scrive, più si racconta se stessi, più si rafforza il senso di sé. Centinaia di milioni di persone che scrivono – e che ieri non lo facevano – si emancipano man mano dalla condizione di spettatori, di semplici consumatori, di pubblico passivo e si abituano a prendere confidenza, a sentirsi soggetti attivi.
Se allora oggi avete scritto qualcosa, domani scrivete di più e poi di più ancora, e mentre lavorerete sui margini di miglioramento della vostra scrittura potete star certi che lavorerete anche e innanzitutto sui vostri margini di miglioramento personali.