Da Starbucks a Lego, innovare significa collaborare col cliente. Manager italiani, avete il coraggio di farlo?
Alzi la mano chi, tra noi, quando pensa al termine “innovazione” non immagina il mito del creativo arroccato nella sua “torre d’avorio” pronto a far echeggiare i corridoi dell’azienda al grido di “Eureka!” rivelando chissà quale misteriosa idea al mondo.
Ebbene: ci sbagliamo di grosso!
Negli ultimi anni, molta letteratura (primo fra tutti il libro Group Genius di Sawyer) e molte esperienze sul campo condotte dalle organizzazioni di tutto il mondo hanno mostrato – in modo sempre più evidente – l’inesattezza di questo mito: l’innovazione, oggi più che mai, è un processo sociale, frutto degli scambi informali all’interno di una data azienda più che di un team di esperti isolati dal contesto esterno.
Qualche esempio? Prendiamo il caso di Starbucks che, con la piattaforma My Starbucks Idea, ha raccolto negli anni oltre 60mila idee dalla community, composta non solo da dipendenti ma anche – e soprattutto – da clienti. Numeri impressionanti se si considera il tempo che servirebbe per crearne di paragonabili da parte di un team di R&D interno all’impresa. Ma come fare a essere sicuri che le idee siano valide? E come fare a districarsi nel complicato oceano di suggerimenti, spesso anche strampalati, che arrivano da tutto il mondo? La risposta è semplice: è la community stessa che valuta e pesa le idee. Il top management di Starbucks seleziona solo quelle maggiormente votate in un meccanismo che premia l’intelligenza collettiva.
Un altro caso che vale sicuramente la pena menzionare è quello di Lego Ideas – ex Lego Cusoo – che rappresenta uno dei pilastri della rinascita di Lego. La piattaforma risulta interessante perché sono gli stessi utenti finali a suggerire i prodotti che verranno poi messi in commercio. L’utente suggerisce un modello e raccoglie dalla community i consensi necessari (almeno 10.000 per ogni prodotto), Lego ne valuta la fattibilità e – eventualmente – lo immette sul mercato. La ciliegina sulla torta? All’ inventore viene riconosciuto l’1% delle revenue derivanti dalla vendita dell’idea proposta. Un riconoscimento non solo informale ma fattivo della partecipazione dei consumatori nella value chain aziendale.
Tutto molto bello, perlomeno sulla carta, ma come mai – allora – i modelli sono ancora così pochi? La sfida maggiore è riuscire a cambiare la cultura organizzativa. Progetti come questi sono digitali solo all’apparenza – o solo in parte –: il grosso del lavoro che deve essere fatto sulle organizzazioni e sulle aziende che intendono intraprendere una strada di questo tipo è principalmente culturale, è una sfida che riguarda in primo luogo l’essere capaci di cambiare le modalità classiche di intendere le organizzazioni e di relazionarsi con i clienti e con i consumatori. Il cliente oggi – in questa nuova dimensione – non è più solo un passivo fruitore di contenuti, ma diviene un partner effettivo dell’azienda partecipando alla co-creazione di valore. Per le aziende di oggi che intendono seriamente intraprendere la strada dell’innovazione, i processi di collaboration e di socializzazione della conoscenza devono essere presi attentamente in considerazione cercando di adattarli al singolo e specifico contesto organizzativo, costruendo startegie sartoriali che si adattino e sappiano stimolare il coinvolgimento degli utenti finali.
Esattamente come nella teoria dei giochi, e negli esempi delle aziende illustrati sopra, la dinamica che si genererà, per coloro che sapranno essere tanto lungimiranti, sarà quella “win-win” in cui tutto l’ecosistema aziendale verrà arricchito da quanto realizzato. Clienti, consumatori finali, stakeholder, partner e il mercato stesso sapranno beneficiare di un processo di innovazione allargato che rimetta – finalmente e al di là di etichette di sorta – le persone al centro dell’impresa.