Come misurare il benessere del Paese? Non solo PIL, spazio a un nuovo indicatore: l’economia della felicità
I soldi fanno la felicità? Sembrerebbe di no.
Almeno secondo quello che viene definito il Paradosso di Easterlin (o paradosso della felicità), il quale spiega che, quando aumenta il reddito e quindi il benessere economico, la felicità delle persone aumenta fino a un certo punto, ma poi inizia a diminuire. In pratica, la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza.
Dagli studi di questo professore di economia dell’Università della California Meridionale, Richard Easterlin, ha preso il via quella che oggi viene comunemente chiamata l’Economia della Felicità, un tema di ricerca che porta avanti un approccio multidimensionale agli studi sul benessere delle persone, introducendo nelle valutazioni indicazioni differenti rispetto a quelle puramente economiche. Per sapere come sta una nazione e di conseguenza come stanno i suoi abitanti, siamo abituati a basarci fondamentalmente su un solo indice, il PIL (prodotto interno lordo). Ma a fronte di diversi aspetti positivi (è un buon indicatore di prosperità economica, sintetico, comprensibile e facilmente comparabile a livello internazionale, correlato positivamente con molte dimensioni del benessere come l’aspettativa di vita, la democrazia, l’assenza di conflitti), il PIL non tiene conto di alcune importanti variabili non monetizzate, come il capitale sociale, le attività di volontariato, i beni relazionali. Abbasso il PIL quindi? Non proprio.
Per approfondire meglio il tema della felicità e della sua relazione con il benessere economico, ci viene in aiuto Luciano Canova, docente alla Scuola Enrico Mattei e autore di un libro su questi temi, Pop Economy (Hoepli). «Prima di tutto vorrei sottolineare che gli indicatori tradizionali come il PIL non solo sono utili, ma necessari – spiega -. L’accesso alle risorse è una dimensione fondamentale del benessere, ma oggi abbiamo a disposizione una quantità di dati tale da avere un quadro molto più sfaccettato».
Ma quindi, i soldi non fanno neanche lontanamente la felicità? «Non in senso stretto. Diciamo che non c’è una relazione lineare tra i soldi e la felicità. Per essere felici è necessaria una maggiore complessità. Pensiamoci: quando guadagniamo di più è perché, in genere, stiamo lavorando di più. E di conseguenza abbiamo meno tempo per altre cose fondamentali, come ad esempio le relazioni. Quindi, nonostante il reddito aumenti, assistiamo a una riduzione del benessere generale dell’individuo. Si tratta di una spiegazione di buon senso, che è anche dimostrata da molti studi».
Numerose organizzazioni, istituti di ricerca e Governi hanno da tempo iniziato a interrogarsi sulla felicità e sulla sua misurabilità. L’OCSE, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico, da anni diffonde la ricerca su questo tema e ha anche lanciato il Your Better Life Index. Con questo strumento ognuno può creare la propria classifica dei paesi dove si vive meglio, dando una maggiore o minore importanza agli indici selezionati, che vanno dall’educazione all’ambiente, dalla sanità al lavoro, dalla sicurezza al bilanciamento vita-lavoro.
«A seconda dei pesi che una persona conferisce a diverse dimensioni – spiega Canova – la classifica cambia: è molto difficile aggregare le diverse dimensioni, perché ogni persona la pensa diversamente e dà un’importanza maggiore o minore a un dato piuttosto che a un altro. Quando scegli un indicatore, sostanzialmente, scegli un obiettivo che vuoi perseguire». E la scelta degli indicatori diventa ancora più importante quando a farlo è un Governo. «A seconda della misura che scelgo, degli indicatori che per me sono più o meno importanti, sto disegnano gli obiettivi sociali di un Paese. È importante che la Politica impari a servirsi dei dati per porsi degli obiettivi e non deciderli a priori. La statistica dovrebbe essere al servizio della Politica e non viceversa».
Sul fronte italiano la prima a muoversi ufficialmente su questo fronte è stata l’Istat, che ha promosso il BES, un sistema di misura del Benessere Equo e Sostenibile. Non si tratta di un indicatore unico, ma di un approccio basato sulla selezione di 12 dimensioni del benessere (Paesaggio e patrimonio culturale, Salute, Qualità dei servizi, Lavoro e conciliazione dei tempi di vita, Ambiente, Ricerca e Innovazione, Istruzione, Politica e istituzioni, Benessere soggettivo, Benessere economico, Relazioni sociali, Sicurezza) e di 134 indicatori.
L’Italia in questo caso si è dimostrata all’avanguardia, mettendo a punto un sistema standard di analisi del dato per dare uniformità a livello di raccolta delle informazioni. E ha proposto lo stesso sistema anche a livello cittadino, creando l’indice URBES: sono strumenti che non sintetizzano le diverse dimensioni attraverso la media, ma che danno la possibilità di valutare i dati e di utilizzarli a seconda di quale sia l’obiettivo sociale di riferimento di una città o di un Paese.
E se volessimo analizzare il nostro personale grado di felicità, e non quello di un’intera nazione? Basta scaricare un’app sul proprio cellulare. Mappiness, applicazione sviluppata dalla London School of Economics, raccoglie i dati degli utenti per analizzare quanto la felicità delle persone è influenzata dall’ambiente che le circonda. In cambio dei propri dati l’app restituisce all’utente informazioni sul suo grado di felicità che può scaricare o vedere sotto forma di classifica (incluso quando, dove e con chi è stato felice). Track Your Happiness promette di far sapere agli utenti quali fattori sono in grado di renderli felici, semplicemente utilizzando l’applicazione. Gli smartphone e i social network sono insomma «fantastiche stazioni di raccolta dati» come dice Canova, che ci possono fornire informazioni dal potenziale enorme.